La vicenda di Gengè Moscarda inizia da un dettaglio.
I. Mia moglie e il mio naso.
«Che fai?» mia moglie mi
domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
«Niente,» le risposi, «mi guardo qua, dentro il
naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.»
Mia moglie sorrise e disse:
«Credevo ti guardassi da che parte ti pende.»
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato
la coda:
«Mi pende? A me? Il naso?»
E mia moglie, placidamente:
«Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso
destra.»
Avevo ventotto anni e sempre hn allora ritenuto il
mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti
della mia persona. Per cui m'era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito
ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo
deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta
improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto piú addentro di me in
quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d'essere in tutto
senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí...
«Che altro?»
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli
occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una piú
sporgente dell'altra; e altri difetti......."
L'ultimo romanzo di Pirandello, il romanzo "più
amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita"
come affermò lo stesso autore. La filosofia pirandelliana trova qui il
suo totale compimento attraverso il protagonista, il "pazzo" Vitangelo
Moscarda, che assorbe in sé e supera tutti i personaggi presenti nelle
opere precedenti dello scrittore siciliano. Moscarda, partendo dalla
scoperta di avere il naso lievemente storto, si avventura in una serie
di ricerche speculative ed esistenziali che lo porteranno prima alla
rovina e poi alla successiva rinascita tramite l'autoesclusione dalla
vita sociale e dalla visione comune degli uomini. La voce del narratore
dà forma e concretezza vivente ad un monologo ricco di interrogazioni ed
esclamazioni
proprio come fosse un'opera teatrale ma in realtà si rivolge, al di là
del palcoscenico, direttamente all'orecchio dell'ascoltatore e alla sua
coscienza.
IL ROMANZO HA UNA DIVISIONE INTERNA?
Si, il romanzo presenta una divisione interna piuttosto articolata: si
suddivide in otto libri che comprendono capitoli identificati, ciascuno con il
proprio titolo. L’unità nominale dei loro argomenti e la significazione
complessiva sono, in questo modo, garantiti. Ma se si guarda all’interno, il
taglio e la misura dei singoli capitoli risultano sempre più rapidi e incisivi.
Il libro I è una sorta di preambolo necessario per lo sviluppo del
romanzo intero. Il protagonista scopre infatti, grazie ad un’osservazione
della moglie, che il naso gli pende verso destra, si rende così conto di non
conoscere il suo stesso corpo, le cose che più intimamente gli appartenevano:
il naso, le orecchie, le mani, le gambe.
Il libro II introduce un altro elemento di riflessione annunciato, ma
non sviluppato nel precedente. Riguarda il soprannome impiegato da Dida per
rivolgersi a Vitangelo: Gengè.
Su questo tono prosegue il terzo libro: continua il rifiuto del nome,
questa volta tocca anche al cognome Moscarda. È chiamata in causa, poi, la
storia della famiglia e la vita del padre, un banchiere che esercitava l’usura
e della cui attività Vitangelo continua a godere.
Il libro IV parla della prima "pazzia" commessa dal
protagonista: inizialmente sembra voler sfrattare uno scultore mancato ridotto
in povertà, ma alla fine decide di donargli una casa sotto gli occhi di tutti,
ma invece di ottenere riconoscenza, viene bollato come PAZZO.
Il libro V rincalza l’attenzione precedente di sottrarsi del tutto
alla taccia di usuraio, ritirando nomi e soldi dalla banca gestita dagli amici.
Siffatta decisione è maturata, però, soprattutto contro la moglie, sino al
punto di afferrarla e sbatterla su una poltrona.
Il libro VI, che registra l’abbandono della casa da parte di Dida,
un inutile dialogo tra Vitangelo e il suocero, la volontà del protagonista di
laurearsi, dimostra l’impossibilità di liberarsi di Gengè.
Il libro VII contiene una sorta di intervallo romanzesco, dove
Vitangelo è alle prese con un’amica della moglie: Anna Rosa, che gli rivela
che i familiari vogliono interdirlo.
Il libro VIII conduce il protagonista là dove da tempo è diretto: un
ospizio di mendiità, costruito per penitenza dei suoi peccati, dietro
intervento ecclesiastico.
TIPOLOGIA TESTUALE?:
romanzo di
carattere (filosofico - umoristico).
TRAMA:
Da uno specchio, superficie ambigua e inquietante, emerge un giorno per
Vitangelo Moscarda, un volto di sé finora ignorato: un naso in pendenza verso
destra. Questo avvenimento provoca in lui una profonda crisi che lo porta a
scoprire che gli altri si fanno di lui un’immagine diversa da quella che egli
si è creato di se stesso, scopre cioè di non essere "uno", come
aveva creduto sino a quel momento, ma di essere "centomila", nel
riflesso delle prospettive degli altri, e quindi "nessuno". Questa
presa di coscienza fa saltare tutto il sistema di certezze e determina una crisi
sconvolgente. Vitangelo ha orrore delle "forme" in cui lo chiudono gli
altri e non vi si riconosce, ma anche orrore della solitudine in cui lo piomba
lo scoprire di non essere "nessuno". Decide perciò di distruggere
tutte le immagini che gli altri si fanno di lui, in particolare quella
dell’usuraio" ( il padre infatti gli ha lasciato in eredità una banca),
per cercare di essere "uno per tutti". Incomincia così a ribellarsi
facendo cose che, agli occhi di chi gli sta attorno, appaiono incomprensibili.
Ricorre così ad una serie di gesti folli, come regalare una casa a un
vagabondo. Vuole vendere la banca di cui non si è mai occupato e che gli
assicura una certa agiatezza economica, e quando rivela alla moglie e
all’amico Quantorzo che vuole cancellare la nomea di usuraio, loro scoppiano a
ridere senza ritegno. Così colpito nell’animo, già, fortemente contrastato,
strattona la moglie ribellandosi a quella marionetta, di nome Gengè, di cui
ella si era sempre compiaciuta. Le pazzie si intensificano: ferito gravemente da
un’amica della moglie, colta da un raptus inspiegabile di follia, al fine di
evitare lo scandalo cede tutti i suoi averi per fondare un ospizio per poveri,
ed egli stesso vi si fa ricoverare, estraniandosi totalmente dalla vita sociale.
Proprio in questa scelta trova una sorta di guarigione dalle sue ossessioni,
rinunciando definitivamente ad ogni identità e abbandonandosi pienamente al
puro fluire della vita, rifiutandosi di fissarsi in alcuna "forma",
rinascendo nuovo in ogni istante, vivendo tutto fuori di sé e identificandosi
di volta in volta nelle cose che lo circondano, alberi, vento, nuvole. La
città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle
campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé
sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel
cielo azzurro pieno di sole tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso,
pesanti e così alte sui campanili aeri. Pensare alla morte, pregare. C’è
pure che ha ancora questo bisogni, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho
più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, rinasco nuovo e senza
ricordi: vivo e intero, non più in me, ma ogni cosa fuori.
TEMPO:
fabula e intreccio sostanzialmente coincidono perché gli avvenimenti seguono
l’ordine cronologico. Bisogna, però, sottolineare il fatto che nella prima
parte del romanzo non vi è racconto, ma solo l’arrovellarsi ossessivo del
protagonista, monologante, sui temi dell’identità fittizia,
dell’inconsistenza della persona. Solo nella seconda parte il filo di un
intreccio comincia a dipanarsi, ma anche qui l’organicità del racconto, la
concatenazione logica e coerente delle cause e degli effetti, salta: i gesti
inconsulti del protagonista sono la negazione di una logica comune, sono
coerenti solo all’interno della sua follia, e così pure il gesto di Anna
Rosa, l’amica della moglie che spara a Vitangelo, resta del tutto gratuito,
immotivata, inspiegabile.
Da sottolineare, inoltre, la presenza di alcune digressioni ( il racconto
della casa del padre, le corse in carrozza da ragazzo ), incisi filosofici (
nuvole e vento, l’uccellino, campagna e città), nonché anticipazioni, mia
moglie, che non era stata mai mia moglie, ma la moglie di colui, si ritrovò
subito, inorridita, come in braccio a un estraneo, a uno sconosciuto; e dichiarò
di non potermi più amare, di non poter più convivere con me neanche un minuto
e scappò via.
Sissignori, come vedrete, scappò via.
Non viene esplicitamente indicato nel testo quando avvengono le vicende, ma
è plausibile pensare che il romanzo sia ambientato nei primi anni del
novecento, lo possiamo dedurre dalle descrizioni degli ambienti, dei personaggi
e dalle professioni esercitate. Non si parla di avvenimenti storici di rilievo
tali da farci dedurre il contesto storico del romanzo, che appare così in
escono piano. Non sappiamo neppure quanto durano le vicende, presumibilmente
qualche mese.
Il tempo della storia è sicuramente minore rispetto al tempo del racconto,
non vi sono infatti sommari, ma solo pause, descrittive e dialogate, e analisi
soprattutto filosofiche. Il ritmo è lento, in modo particolare nella prima
parte del racconto.
Alla luce di quanto detto, emerge, in primo luogo, l’esiguità dei fatti,
estremamente pochi e l’assenza di riferimenti temporali, questo perché per
Piarandello non sono importanti gli avvenimenti quanto le considerazioni che si
possono trarre. Lo stesso vale per l’aspetto temporale: l’autore ha tentato
di creare un romanzo "fuori dal tempo" che potesse cioè adattarsi a
qualsiasi epoca, in effetti gli argomenti trattati sono moderni, riguardano
anche noi stessi, provocando in questo modo, un vero e proprio annullamento del
tempo storico.
SPAZIO:
gli avvenimenti si svolgono nella nobile città di Richieri, inventata e che
potrebbe rifarsi tanto ad Agrigento quanto a Palermo, e si articolano in
ambienti sia interni che esterni: la casa del protagonista, la banca, le vie
della città, la Badia Grande ecc. ecc. di questi luoghi l’autore ci fornisce
particolari descrizioni: e pareva un lago la piazza con tutto quel brillio di
stelle un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose,
la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo scambio e strideva
spietatamente alla girata, quel cane che scappava…- Quella Badia, già
castello feudale dei Chiaramonte, con quel portone basso tutto tarlato, e la
vasta corte con la cisterna in mezzo, e quello scalone consunto, cupo e
rintronante, che aveva il rigido delle grotte, e quel largo e lungo corridoio
con tanti usci da una parte e dall’altra e i mattoni rossi del pavimento
avvallato lustravano alla luce del finestrone in fondo aperto al silenzio del
cielo, tante vicende di casi e di aspetti di vita aveva accolto in sé…
l’ambiente che prevale è cittadino, e la folla è importante perché
alimenta le dicerie sulla pazzia di Vitangelo, che si sente continuamente
osservato e giudicato da tutti come un usuraio. I luoghi sono presentati dal
punto di vista del protagonista e nelle sue descrizioni prevalgono
sostanzialmente elementi visivi.
PERSONAGGI:
il protagonista
assoluto di questo romanzo è Vitangelo Moscarda, di lui
l’autore ci offre anche una descrizione fisica in diversi punti della
narrazione, e in particolare mentre analizza i suoi difetti fisici,
avevo
ventotto anni e sempre fino allora ritenuto il mio naso, se non proprio
bello,
almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia
persona- le
mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi ^ ^, le
mie
orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri
difetti. Ancora più interessante è la descrizione che Vitangelo si fa
guardandosi
allo specchio, gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile,
dura e pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi
verdastri, quasi forati qua e là nella cornea da macchioline giallognole;
attoniti, senza sguardo; quel naso che pendeva verso destra, ma di bel taglio
aquilino; i baffi rossicci che nascondevano la bocca; il mento solido, un po’
rilevato. Ma non credo che l’autore abbia voluto soffermarsi
particolarmente sul ritratto fisico del protagonista anche perché nella
descrizione emergono tratti irrilevanti dell’aspetto, anche se la
"crisi" di Vitangelo scoppia con la presa di coscienza di un difetto
fisico, di quali fatti volete parlare? Del fatto che io sono nato, anno tale,
mese tale, giorno tale, nella nobile città di Richieri, nella casa in
via tale, numero tale, del signor Tal dei Tali e dalla signora Tal dei
Tali…alto di statura un metro e sessantotto; rosso di pelo, ecc.ecc ? è
la sua mente che ci interessa e che viene accuratamente scrutata e vediamo che
il protagonista si arrovella, perde il sonno pur di trovare una risposta ai suoi
quesiti, per vedere in definitiva più chiaro. Non si limita a confessare di non
sapere chi sia, ma afferma deliberatamente di non voler più essere nessuno, di
rifiutare totalmente ogni identità individuale. Bisogna per Vitangelo vivere di
attimo in attimo, in perenne mutazione, e ciò è una condizione esaltante,
gioiosa. Ma per arrivare a questa conclusione ha dovuto affrontare la società e
distruggere quelle immagini che la gente si era creata di lui, non mi sono più
guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo che cosa sia
avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto...nessun nome. Nessun
ricordo oggi del nome di ieri.
Spesso ho come avuto la sensazione che Vitangelo non fosse un vero
personaggio, ma una sorta di voce della coscienza che ha il compito di
redarguirci e di farci capire la realtà delle cose e, anche in quest’ambito,
non risultano importanti le vicende in cui il protagonista è coinvolto quanto
ciò che ci dice e ciò che vuole comunicare.
Gli altri personaggi che compaiono nel racconto possono essere così
suddivisi:
quelli che lo considerano Gengè:
·
La moglie Dida, innamorata di quella marionetta che reputava
sciocca, timida, quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei non esistevo
affatto, non ero mai esistito… quando il protagonista la strattona,
incredula che quell’uomo possa essere il suo Gengè, lo abbandona. Vitangelo
ne era comunque innamorato.
·
Il padre di Dida, molto curato, non pur nei panni, anche
nell’acconciatura dei capelli e dei baffi fino all’ultimo pelo; biondo,
biondo; e d’aspetto non dirò volgare, ma comune ad ogni modo. Anche per
lui Vitangelo era uno stupidissimo uomo sempre soddisfatto di sé
·
Anna Rosa, un’amica di Dida, presente nella parte più romanzata
del racconto, orfana di padre e di madre, abitava con una vecchia zia in quella
casa che pare schiacciata dalle mura altissime della Badia Grande. Sembra pazza
quando si ferisce incidentalmente e poi ferisce lo stesso Vitangelo.
Quelli che lo considerano usuraio:
·
Firbo e Quintorzo, gli amici fidati di Vitangelo così come li
definisce lui, voluto bene da tutti quei consoci, da Quantorzo, come
figliuolo, da Firbo, come un fratello, i quali tutti sapevano che con me era
inutile parlare di affari e che bastava di tanto in tanto chiamarmi a firmare…
infatti questi due soci del protagonista non avevano di lui alcuna
considerazione, gestivano gli affari non curanti dell’opinione del padrone
della banca: Vitangelo che di fatto era per tutti un usuraio. Quando Vitangelo
assume un atteggiamenti inconsueto e commette delle "pazzie", i due
cari amici del protagonista non si preoccupano di scoprirne la causa, ma si
limitano a trovare la soluzione migliore per non vedere danneggiati i loro
interessi. Risultano così infidi, privi di compassione, interessati solo al
denaro.
·
La folla, le persone del paese non sono dei veri personaggi, ma
sono importanti perché concorrono ad aumentare la crisi del protagonista, che
si vede da tutti bollato come usuraio.
·
Monsignor Partanna, era stato eletto vescovo per istanze e mali
uffici di potenti prelati a Roma. Don Antonio Sclepis, era un prete lungo
e magro, quasi diafano, come se tutta l’aria e la luce dell’altura dove
viveva lo avessero non solo scolorito ma anche rarefatto.
STILE:
il romanzo assume la forma del soliloquio, trasformabile o meno in un dialogo
con un pubblico chiamato all’ascolto della voce narrante, e voluto presente,
quasi come prima incarnazione di un pubblico di lettori. I quali a teatro
ovviamente non esistono; ed anche nel romanzo dovrebbero per Pirandello, uscire
dalla loro condizione passivi ed essere coinvolti da chi li provoca.
Per quanto riguarda la sintassi, Piandello fa di tutto perché il soliloquio
di Vitangelo Moscarda perda il timbro di protesta e di denuncia in nome dei
valori umani genericamente condivisi. Deve risuonare, piuttosto, come pronuncia
di una voce singola, socialmente, e prima ancora familiarmente emarginata.
Comunque Pirandello non si serve di toni accesi e disperati, come invece aveva
fatto nel Fu Mattia Pascal. Frequenti sono le frasi esclamative nelle
quali si esprime tutto il desiderio di fuga dal mondo e di annullamento della
natura che anima Vitangelo Moscarda, un mio dunque che non era per me!, tutto
quel corpo lì che per me era niente; eccolo: niente!
Il lessico è ricco di aggettivi, molte sono le affermazioni incidentali, le
interrogative retoriche, forme verbali esortative o imperative, ma in attesa
di che, lui? Di vedermi?no. egli poteva essere veduto, ma non vedermi,- la
campagna! Che altra pace, eh? Vi sentite sciogliere. Si; ma se mi sapete dire
dov’è? Dico la pace. No, non temete, non temete! Vi sembra propriamente che
ci sia pace qua?. Comunque tutte queste modalità di parlare, in Uno nessuno
e centomila progressivamente si allentano e si scaricano.
Interessante è il passo nel racconto in cui Pirandello arriva a chiedere
scusa ai suoi lettori per gli ammiccamenti cui è costretto a ricorrere, non
potendo sapere come loro appare in quel momento, scusatemi, tutti questi
ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d’ammiccare così perché, non
potendo sapere come v’appaio in questo momento, tiro anche, con questi
ammiccamenti, a indovinare.
Pirandello ha utilizzato un linguaggio originale, diretto, in grado di
comunicare al lettore l’angoscia più o meno esplicita del personaggio senza
filtri ipocriti e fuorvianti. Pirandello ha dato luogo ad uno sperimentalismo
straordinario grazie ad un lessico raffinato e letterato, elementi dialettali e
gergali, termini specialistici, espressioni trite e banali, il discorso
indiretto libero e primo fra tutti il dialogo, usato con grandissima frequenza e
segnalatore di una qualità scenica della scrittura pirandelliana che si
manifesta anche con l’immediatezza visiva dei gesti e delle parole.
Ne risulta una lingua parlata, intessuta di movimenti, drammatica, che
riflette la propensione di Pirandello perla scrittura teatrale: una scrittura
che è il risultato di un sapiente impasto di parole, silenzi, gesti,
espressioni e rapporti spaziali.
TEMI:
ALCUNE INFORMAZIONI SULLA FORMAZIONE DEL ROMANZO:
Uno, nessuno, centomila, l’ultimo romanzo di Pirandello, fu pubblicato a
puntate sul settimanale "La fiera letteraria" nel 1926. L’idea del
romanzo era già nella mente di Pirandello nel 1910, come si capisce dalla
lettera a Botempelli. La previsione di Pirandello non si realizzò e il romanzo
non comparve nel 1913. Un testo che anticipa la stampa del romanzo appare nel
gennaio del 1915, il lavoro di scrittura procederà poi fra alti e bassi negli
anni successivi: " sto ora ultimando un romanzo che avrebbe dovuto
uscire prima di tutte le mie commedie. In questo romanzo c’è la sintesi
completa di tutto ciò che ha fatto e la sorgente di quello che farò", questa
una delle dichiarazioni di Pirandello. Il libro appare quasi ultimato nel 1922,
ma vedrà la luce solo quattro anni più tardi.
Un lungo processo che abbraccia trasversalmente non solo la vita, ma
l’opera stessa di Pirandello, in questo romanzo si ritrovano infatti le
principali tematiche trattate dallo stesso:
1.
La presa di coscienza della prigionia delle "forme":
il problema dell’identità era già presente nel
Fu Mattia Pascal e viene affrontato da Vitangelo Moscarda che parla in modo
retrospettivo: il protagonista conclusosi un ciclo della sua vita, si volge
indietro a rievocarlo. Dopo la scoperta che il naso gli pende da una parte egli,
che non se ne era ami avveduto, scopre così che l’immagine che si è creato
di sé non corrisponde a quella che gli altri hanno di lui. Si rende conto del
fatto che esistono infiniti "Moscarda", l’uno diverso dall’altro,
a seconda della visione delle tante persone che lo conoscono, in primo luogo la
moglie. In lui nasce pertanto un vero orrore per la prigionia delle
"forme" in cui gli altri lo costringono; ma scopre anche di non essere
"nessuno" per sé, e questo genera in lui un’altra forma di orrore,
un senso angoscioso di assoluta solitudine.
2.
La rivolta e la distruzione delle forme: la pazzia:
la pazzia è un modo caro agli eroi pirandelliani
per scardinare il meccanismo delle forme, delle convezioni e degli istituti
sociali che imprigionano la vita nel suo fluire. Viene quindi vista
positivamente.
3.
Sconfitta e guarigione:
Moscarda ha cercato, con le sue follie, di
ribellarsi al sistema ferreo delle convenzioni sociali, di scardinarlo, ma è
rimasto sconfitto. E tuttavia proprio in questa sconfitta trova una
forma di guarigione dalle angosce che lo
ossessionavano, alienarsi da se stessi, rifiutare il proprio nome, per
abbandonarsi gioiosamente al fluire della vita, morendo ad ogni attimo e
rinascendo nuovo e senza ricordi, per identificarsi con tutte le cose fuori.
4.
L’umorismo:
esso si basa sulla finzione, per cui
l’individuo, per non essere emarginato dai suoi simili, deve ricorrere a
continue menzogne e ipocrisie, deve insomma indossare una maschera che
solo la riflessione umoristica permette di individuare e denunciare. La
consapevolezza dell’inganno del vivere conduce inevitabilmente ad una rottura
dei valori borghesi tradizionali e soprattutto a una visione lacerata e
frammentaria della creatura umana e a nessuna identità profonda, che si
rispecchia in un’arte disorganica e trasgressiva, deformata e critica.
5.
L’identificazione uomo - natura:
nella parte finale del racconto tra uomo e natura
si crea un’identificazione profonda, quest’albero, respiro tremulo di
foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, quasi mistica, è
proposta come modello per ogni uomo che sappia rompere il meccanismo delle
convenzioni sociali.
6.
Lo specchio:
ma quando sta davanti allo specchio, nell’attimo che si rimira, lei non
è più viva, perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita per
vedersi. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un
momento. La vita si muove di continuo e non può mai vedere veramente se
stessa…lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi,
perché non vive… non si può vivere davanti a uno specchio. Vitangelo si
è reso conto che nessuno di noi può vedersi e anche se uno riuscisse a
conoscersi, di fatto non potrebbe mai sapere che cosa pensano gli altri.
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