Siamo su Dienneti

venerdì 23 aprile 2010

CANTIERE DI SCRITTURA


Mery Pafumi

1.Galileo Galilei, scienziato italiano, afferma che per arrivare a delle certezze assolute, bisogna ricorrere alla matematica. La formalizzazione dell’esperienza, avviene attraverso la matematica che da un lato mette in risalto le proprietà geometriche, dall’altro ne seleziona alcuni contenuti fondamentali. Galileo non ritiene che la spiegazione scientifica comporti un’affermazione vera, ma la considera solo una spiegazione soddisfacente. Galileo dice che se la conoscenza è nulla rispetto alla sapienza divina, rispetto ad una sola legge coincide con quella di Dio, grazie appunto alla matematica e alla fisica. A questo proposito analizziamo un brano: “Tanto inferiore, eppure tanto simile a Dio”, tratto dalla sua opera: “dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo”. Qui vediamo come Galilei, attraverso il personaggio di Salviati, ci fa capire l’importanza del metodo scientifico, che è l’unico che ci garantisce la fondatezza della conoscenza. Introduce l’idea che l’universo sia interamente regolato dalle stesse leggi e formato dalla stessa materia, respingendo il principio aristotelico della divisione fra realtà terrestre e realtà celeste.
2.Pascal, nel testo: “la vertigine degli spazi infiniti”, tratto dalla sua opera: “Pensieri”, si chiede il perché lui si trova in questo mondo, in questa posizione, circondato da questi esseri. L’uomo si vede come sperduto in questo angolo della natura e da quest’angusta prigione dove si trova, cioè l’universo, impari a stimare nel giusto valore la terra, le città e se stesso. A questo punto si chiede: , la risposta è che l’uomo è nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. L’uomo in questa vita è vittima della noia, cioè un uomo pieno di riposo, senza pensieri, senza svaghi ecc ecc. egli quindi sente la sua nullità, il suo abbandono. Pascal dice che l’uomo è una canna leggerissima, ma è una “canna pensante”(a questo proposito si rifà a Cartesio), cioè l’uomo è superiore all’universo perché è consapevole di quello che fa.

ANTONELLA SALVA'


Alla fine della prima giornata, giunta la sera, si profila il rinvio della conversazione all’indomani. In quest’ultima fase vengono invece in primo piano le riflessioni di Sagredo a Salviati riguardo al tema epistemologico della potenza della conoscenza umana. Per Sagredo è segno di presunzione ritenere l’intelletto umano capace di comprendere il modo complessivo in cui opera la natura divina. Viceversa la coscienza dei limiti del sapere umano in rapporto alla vastità della consapevolezza assoluta, sarebbe la caratteristica del vero scienziato. Così si comportava infatti Socrate, che l’oracolo di Delfi qualificava come l’ateniese più sapiente e che tuttavia dichiarava di non sapere nulla. A Simplicio risponde Salviati delineando una distinzione fra «l’intendere intensive» e «l’intendere estensive»: mentre dal punto di vista dell’estensione, della totalità, l’intelletto umano non può eguagliare quella divino, in un campo limitato e intensivo la scienza umana può competere con l’intelligenza divina mediante il metodo matematico e geometrico. L’intelletto degli uomini, benché limitato e parziale, non va disprezzato o considerato incapace di conoscere. Perfino il più semplice degli strumenti dell’intelletto, la scrittura, con i suoi «venti caratterizzi di carta» rivela di possedere una forza immensa, capace di comunicare le idee degli uomini nello spazio e nel tempo. Infatti secondo Galileo l’intelligenza dell’uomo si basa sulla coscienza del limite: la condizione per “sapere qualcosa” è la conquista di un atteggiamento di umiltà. Il concetto, implicito nello svolgimento della Favola dei suoni, è qui esposto esplicitamente da Sagredo ed è sviluppato nelle sue implicazioni polemiche, radicalmente eversive del costume e degli atteggiamenti su cui si basava il sistema della conoscenza tradizionale, fermamente arroccato nella difesa di se stesso. Questo scopo viene tanto fortemente perseguito dal dotto “aristotelico” rappresentato da Simplicio, quanto più omogeneo esso si rivela alla conservazione del “principio d’autorità” riaffermato in teoria e ristabilito in concreto sul piano religioso e politico dalla Controriforma. Il sistema “aristotelico” non ammette in questo momento storico il dubbio e la critica

Non sussiste contraddizione tra l’affermazione dell’oracolo e quella di Socrate, quando si ammetta l’insuperabile relatività e parzialità della conoscenza umana, che può cogliere appieno la «certezza» e la «necessità» soltanto di alcune tra le «infinite proposizioni», che soltanto la natura e Dio (i due termini sono significativamente accostati) comprendono appieno. È proprio questa limitazione che Simplicio non può ammettere, poiché il sistema di pensiero di cui è il rappresentante si propone come perfetto e immutabile. Ma - notano i suoi oppositori – lo stesso pensiero umano si sviluppa necessariamente nel tempo e questa sua qualità, tipica e ineliminabile, fa sì che esso si realizzi inevitabilmente attraverso fasi successive, ciascuna delle quali implica una trasformazione progressiva della situazione. L’operazione conoscitiva è un “processo” che tende all’infinito: la coscienza del limite non solo non annulla la portata dell’intelligenza dell’uomo, ma la determina ed è la condizione della sua validità, limitata ma concreta; anzi pone l’intelligenza dell’uomo tra le «più eccellenti» opere di Dio. Tocca a Sagredo proporre all’ammirazione del lettore la portata delle invenzioni concrete degli uomini, esaltando al di sopra del genio creativo dei grandi artisti (e il riferimento primo va all’arte plastica, scultorea, di Michelangelo), il genio anonimo di chi «si immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo» attraverso «vari accozzamenti di venti caratterizzi sopra una carta». Nella scoperta della forza liberatoria potenziale del più umile degli strumenti pratici di cui dispone ogni intellettuale (cioè di ogni uomo che voglia «comunicare i suoi più reconditi pensieri […] parlare con quelli che son nell’Indie […] parlare con quelli che non sono ancora nati») sta l’indicazione preziosa del fatto che la liberazione dai limiti ferrei, imposti dalla «prosunzione» di chi crede di sapere già tutto, alla piena realizzazione delle potenzialità della mente umana è alla portata di tutti e richiede ben poco per affermarsi in concreto.

Blaise Pascal è un pensatore dalla genialità molto spiccata, comincia a scrivere i primi trattati a soli 11 anni. In seguito ad un incidente del 1654 Pascal si converte, e abbandona il mondo fino ad allora conosciuto per ritirarsi a Port-Royal des Champs. Dove prima difenderà i giansenisti poi si dedica alla stesura di una sorte di "Apologia Cristiana"
Secondo Pascal esiste un solo problema a cui l'uomo può dedicarsi : quello dell'esistenza, è l'unico problema che l'uomo deve tentare di risolvere, egli cercherà di capire qual sia l'esistenza più giusta....Egli dirà che la vita quotidiana e le tante occupazioni fanno calare l'uomo nel divertissement ovvero in uno stato di oblio e stordimento di sé, che principalmente si basa sul fatto che le persone preferiscono non pensare ai problemi che non riescono a risolvere e da cui lo stordimento e l'oblio come fuga dal sé e dai propri problemi.
Al concetto di Divertissement si lega quello di ennui ovvero di noia. analizzando la vita umana Pascal dice che i pensieri degli uomini i occupano del passato del futro e mai del presente, la nostra vita è solo proiettata verso il futuro. Il divertissement quindi non è fonte di gioia per questo Pascal propone all'uomo di accettare e affrontare la propria condizione: l'uomo di Pascal nasce per “pensare“la sua dignità sta proprio in questo.
Importante per Pascal è la morale e la conoscenza di essa tanto che egli stesso dirà "la scienza delle cose esteriori non varrà a consolarmi dell’ignoranza della morale; ma la conoscenza della morale mi consolerà sempre dall’ignoranza del mondo esteriore", i problemi esistenziali non sono quindi comprensibili con la scienza. Scienza e divertissement non sono in grado di risolvere i problemi dell'uomo.

GIADA GIUFFRIDA


1- Galilei esprime una grande fiducia nella ragione umana, che appartiene a tutti e non conosce gerarchie, e che può comprendere interamente la natura nella complessità dei suoi fenomeni.
Nel Dialogo è Segredo il personaggio che meglio rappresenta questa sua convinzione.
In chiusura della prima giornata
Salviati, sulla scorta delle affermazioni di Sagredo, si lancia in un vero e proprio elogio della ragione umana, che egli considera della stessa purezza di quella divina, anche se non può averne l'infinita estensione, ma coincide con quella di Dio perchè può giungere a decifrare quel grandissimo libro dell'universo con il linguaggio fatto di numeri, cerchi e altre figure geometriche.
In questa pagina del Dialogo Galilei, attraverso il personaggio di Salviati, spiega l'importanza di delimitare il campo d'indagine della ricerca scientifica. Quando egli parla del modo intensive si riferisce al metodo sperimentale, che è l'unico per lui a garantire la fondatezza della conoscenza scientifica.
Per gli aristotelici la conoscenza doveva muovere da deduzioni sui principi generali del sapere, già delineati nei testi della tradizione. Questi costituiscono una cornice entro la quale si collocano le elaborazioni successive e che, quindi, delimita il dibattito scientifico. La posizione di Galilei al contrario presuppone la conoscenza come acquisizione progressiva e tendenzialmente senza fine. Non c'è nessuna cornice che fissi i principi fondamentali, ma ogni singola scoperta rivela in tutta chiarezza uno degli infiniti particolari della natura, così come è stato determinato dalla ragione divina.
Perciò l'intervento di Salvati assume l'aspetto di un vero e proprio elogio della ragione umana, che culmina nell'affermazione "quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina".

2- L'individuo non ha la facoltà di comprendere il significato della vita e dell'universo, nonchè quello della sua stessa presenza nel mondo. Un abisso incolmabile separa l'infinità di Dio, isolato nella sua altezza, dalla finitezza dell'uomo, che è prigioniero del tempo e dello spazio. L'uomo non è assolutamente in grado di contribuire alla propria salvezza, dato che la fede e la grazia sono concesse da Dio in modo gratuito, per motivi che la ragione stessa non può comprendere.Pascal, allontanandosi, dall'ottimismo umanistico, è convinto che l'uomo non abbia niente di cui vantarsi. Anzi dovunque indirizza la sua attenzione trova conferme della propria miseria. Anche il motivo della centralità nell'universo è volto in negativo: posto fra l'infinitamente grande (il cosmo) e l'infinitamente piccolo (la realtà microscopica), egli appare come un'esilissima presenza sull'orlo di due abissi. Eppure, su questa assoluta debolezza si fonda l'unica possibilità di riscatto: egli può pensare e prendere coscienza della propria nullità. La ragione che per Galilei era strumento divino e consentiva la conoscenza dei segreti della natura, diventa per Pascal un'arma vincente solo nel momento in cui comprende e riconosce la sua impotenza dinanzi al mistero dell'universo e che il dominio della scienza sia ristretto alla risoluzione di problemi tecnici che non conducono l'uomo a una maggiore serenità.Pascal abbandona gli studi scientifici ai quali si era dedicato con straordinari risultati, convinto che essi non fossero in grado di fornirgli risposte sul senso dell'esistenza, e si ritira nell'abbazia di Port-Royal, vicino Versailles.

YVONNE SGROI
1. Galilei dà molta fiducia all’intelligenza umana e afferma che per raggiungere le certezze assolute bisogna usufruire della matematica. Infatti la formazione dell’esperienza avviene attraverso questa, che mette in risalto le proprietà geometriche e ne seleziona alcuni contenuti fondamentali. Secondo Galilei però la spiegazione scientifica non dà un’affermazione vera ma solo una spiegazione. Nella sua opera “Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo”, vediamo come Galilei, attraverso il personaggio di Salviati, mette in risalto l’importanza del metodo scientifico, unico garante della vera conoscenza.

2. nel testo “La vertigine degli spazi infiniti”, tratto da “Pensieri”, Pascal si domanda il perché della sua esistenza in questo mondo, in questa precisa posizione, circondato da queste persone. In questo testo l’uomo si perde in quest’angolo di natura (l’universo) e si pone anche una risposta, cioè che l’uomo rispetto all’infinito non è nulla e in questa vita, caratterizzata da noie e che porta all’uomo ad essere privo di pensieri fa sentire il peso di questa sua nullità. Però l’uomo, in confronto all’universo, è superiore, secondo Pascal, perché sa cosa fa.

giovedì 22 aprile 2010

GALILEO E PASCAL




GALILEI aveva difeso fino in fondo la fiducia nella ragione e aveva ritenuto che la scienza potesse aiutare l'uomo a liberarsi dalle angosce della vita.


Al contrario PASCAL giunge a ritenere che l'atto supremo della ragione sia riconoscere la propria impotenza dinanzi al mistero dell'universo e che il dominio della scienza sia ristretto alla risoluzione dei problemi tecnici che non conducono l'uomo a una maggiore serenità.

INTERPRETARE


1.Spiegate con parole vostre , ma ricorrendo a precisi riferimenti al testo,quale rapporto Galilei stabilisce fra intelligenza umana e quella divina. (Testo di riferimento pag. 174)

2.Riflettete sul concetto della ragione così come emerge da" Pensieri "di Pascal e cercate di spiegare con parole vostre, ma ricorrendo a precisi riferimenti al testo,per quali motivi e in quali termini Pascal perse interesse per la scienza.( testo di riferimento pag 184)

martedì 13 aprile 2010

CANTIERE DI SCRITTURA DANTESCA (XXIII CANTO PURGATORIO)


GIADA GIUFFRIDA

1) Le anime dei golosi sono terribilmente macilente,la pelle prende forma dalle ossa,le occhiaie sono vuote e buie, pallida la faccia :un corteo di spettri,di affamati,quali a volte emergevano nel paesaggio cittadino dopo un lungo assedio o in seguito a spaventevoli carestie. Sono i golosi: furono stimolati freneticamente da un'insaziabile fame e sete, sono ora puniti nella gola:soffrono atrocemente la fame e sete,ridestate in loro dalla vista di frutte e acque, però intoccabili.

2)Forese vuol sapere dall'amico come,vivo, faccia il viaggio nell'aldilà. Dante invece di rispondere alla domanda chiede il motivo della sua magrezza.

3)Nelle sue parole, Forese esprime la più violenta invettiva dantesca contro i malcostumi sfacciati e impudichi delle donne di firenze. non è un omaggio alla retorica della letteratura misogina, ma un ulteriore aspetto della polemica contro Firenze ed il suo popolo.


SANDRO DEL POPOLO

1)La pena dei golosi doveva consistere nel soffrire la fame e la sete guardando frutta e acque. Così il loro desiderio non poteva essere soddisfatto. Ma ciò era un tormento sano in quanto li conduceva alla beatitudine

2)Forese chiede a Dante come mai, essendo un'anima viva si trovi nel purgatorio.Dante risponde a sua volta con un'altra domanda. Egli chiede la causa della magrezza sua e delle anime che si trovano con lui.

3)Forese Donati con le sue parole esprime una violenta invettiva contro le donne fiorentine. Di esse egli critica i malcostumi e la mancanza di pudore. Ciò è una ulteriore critica nei confronti di Firenze e il suo popolo

FRANCESCA AUDITORE

1)I golosi poichè in vita si diedero ai piaceri di gola, ora sono costretti a soffrire fame e sete e sono magrissimi

2)Forese chiede a Dante come mai,ancora vivo, sia nel purgatorio.Dante invece di dare risposta alla domanda chiede il motivo della sua magrezza e il perchè della condizione di quelle anime.

3)Forese accusa le donne fiorentine del gesto fatto una volta rimaste vedove(come per esempio il risposarsi),venendo meno alla fedeltà e alla memoria dei mariti.


ANTONELLA SALVA'

I golosi soffrono fame e sete sotto alberi carichi di frutti e presso chiare sorgenti, cantando preghiere. Essi furono stimolati freneticamente da un’insaziabile fame e sete, sono ora puniti nella gola.

Forese Donati vorrebbe sapere l’identità delle ombre che lo accompagnano Dante.Quest’ultimo però, prima di rispondergli, vuole a sua volta sapere i motivi di tanta magrezza e Forese spiega allora che nell’acqua e nei frutti vi è una virtù misteriosa, che rende estremamente magri, deboli e squamosi.Dante chiede ancora a Forese, morto da soli cinque anni, come mai non si trovi ancora nell’Antipurgatorio, essendosi pentito alla fine della sua esistenza ed egli risponde che le preghiere devote della moglie Nella gli consentirono di abbreviare la sua attesa.

Forese Donati con le sue parole esprime una violenta contro le donne fiorentine. Di esse egli critica i malcostumi e la mancanza di pudore.






lunedì 12 aprile 2010

CANTO XXIII PURGATORIO

"...CHI SON QUELLE
DUE ANIME CHE LA' TI FANNO SCORTA;
NON RIMANER CHE TU NON MI FAVELLE!"

Mentre che li occhi per la fronda verde
ficcava ïo sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde,

lo più che padre mi dicea: «Figliuole,
vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto
più utilmente compartir si vuole».

Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto,
appresso i savi, che parlavan sìe,
che l'andar mi facean di nullo costo.

Ed ecco piangere e cantar s'udìe
'Labïa mëa, Domine' per modo
tal, che diletto e doglia parturìe.

«O dolce padre, che è quel ch'i' odo?»,
comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno
forse di lor dover solvendo il nodo».

Sì come i peregrin pensosi fanno,
giugnendo per cammin gente non nota,
che si volgono ad essa e non restanno,

così di retro a noi, più tosto mota,
venendo e trapassando ci ammirava
d'anime turba tacita e devota.

Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,
palida ne la faccia, e tanto scema
che da l'ossa la pelle s'informava.

Non credo che così a buccia strema
Erisittone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n'ebbe tema.

Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!'.

Parean l'occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge 'omo'
ben avria quivi conosciuta l'emme.

Chi crederebbe che l'odor d'un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d'un'acqua, non sappiendo como?

Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,

ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?».

Mai non l'avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l'aspetto in sé avea conquiso.

Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.

«Deh, non contendere a l'asciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne ch'io abbia;

ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!».

«La faccia tua, ch'io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos' io lui, «veggendola sì torta.

Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr' io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d'altra voglia».

Ed elli a me: «De l'etterno consiglio
cade vertù ne l'acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond' io sì m'assottiglio.

Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e 'n sete qui si rifà santa.

Di bere e di mangiar n'accende cura
l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.

E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,

ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire 'Elì',
quando ne liberò con la sua vena».

E io a lui: «Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu' anni non son vòlti infino a qui.

Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l'ora
del buon dolor ch'a Dio ne rimarita,

come se' tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora».

Ond' elli a me: «Sì tosto m'ha condotto
a ber lo dolce assenzo d'i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.

Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m'ha de la costa ove s'aspetta,
e liberato m'ha de li altri giri.

Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;

ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov' io la lasciai.

O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica?
Tempo futuro m'è già nel cospetto,
cui non sarà quest' ora molto antica,

nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l'andar mostrando con le poppe il petto.

Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?

Ma se le svergognate fosser certe
di quel che 'l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;

ché, se l'antiveder qui non m'inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.

Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove 'l sol veli».

Per ch'io a lui: «Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.

Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l'altr' ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui»,

e 'l sol mostrai; «costui per la profonda
notte menato m'ha d'i veri morti
con questa vera carne che 'l seconda.

Indi m'han tratto sù li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
che drizza voi che 'l mondo fece torti.

Tanto dice di farmi sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice;
quivi convien che sanza lui rimagna.

Virgilio è questi che così mi dice»,
e addita'lo; «e quest' altro è quell' ombra
per cuï scosse dianzi ogne pendice

lo vostro regno, che da sé lo sgombra».

PARAFRASI

1.Descrivi la pena dei golosi(VV16-36)

2.Cosa chiede Forese a Dante, dopo essersi rivelato, e cosa gli risponde il poeta?(vv.49-60)

3.Quali accuse Forese muove alle donne fiorentine?(vv.91-114)

APPROFONDIRE

1.Il Purgatorio è la cantica in cui è più presente il tema dell'amicizia: approfondiscilo, confrontando l'episodio di Forese con quello di Casella nel canto II.

2.Nei canti V,VIII e XXIII del Purgatorio, Dante presenta tre figure di vedove:confrontale.