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mercoledì 17 settembre 2014

La dinastia giulio-claudia

Gli obiettivi specifici di questa unità sono:


Conoscere

-le difficoltà di Augusto nel designare un successore;
-gli imperatori della dinastia giulio-clausia e il loro operato;
-le caratteristiche della vita culturale degli ultimi anni del principato di Augusto a Claudio;
-la politica culturale di Nerone e la fioritura letteraria degli anni del suo impero;

Saper individuare


-le diverse modalità con cui gli esponenti della dinastia giulio- claudia gest
-nella politica culturale di Nerone,l'intento di ricollegarsi ad Augusto;
-nelle forme di opposizione di moltri intellettuali al regime di Nerone le motivazione di matrice stoica;

Saper mettere in relazione

La politica culturale di Nerone e i suoi fini propagandistici.


Mappa

http://adotom.files.wordpress.com/2012/02/dinastia_giulio_claudia.pdf



Già Augusto, il primo imperatore, aveva compreso come compito del princeps non fosse quello di sopraffare - attraverso i propri poteri straordinari - le forze politiche e gli interessi particolaristici interni all'impero, bensì al contrario di porre in atto un'opera di mediazione tra tali forze e tali interessi, al fine di rafforzare la coesione politica della compagine imperiale.
La vicenda dei quattro imperatori successivi - appartenenti tutti alla dinastia Giulio Claudia - non farà che ribadire un tale principio.


Tiberio

Sarà proprio a causa della mancata mediazione tra tali forze infatti, che i due più giovani imperatori, Caligola e Nerone, falliranno nella propria missione politica. E sarà sempre sul piano della mediazione che - al contrario - sia Tiberio che Claudio consolideranno il proprio principato, grazie alla capacità di tenere insieme e conciliare i differenti aspetti della vita politica e economica dell'Impero.

Così, se le vicende di Nerone e Caligola (a tutti in qualche modo note, perché divenute - grazie alla tradizione storicistica senatoria - parte dell'immaginario collettivo) si concluderanno tragicamente con la morte dei protagonisti, il bilancio dei principati di Claudio e Tiberio sarà invece decisamente più positivo.

Entrambi riusciranno infatti a conservare un certo equilibrio e una discreta stabilità politica all'interno della costruzione imperiale, e con essa anche l'appoggio dei ceti più influenti (ricorsi in altre situazioni all'arma della congiura anti-imperiale).

Vediamo adesso quali sono le forze principali all'interno della società romana, con le quali la stessa autorità del princeps deve fare i conti, cercando di agire nei loro confronti da mediatore, escogitando spesso (per così dire) delle soluzioni che evitino l'insorgere di divergenze sia tra di esse che nei confronti dello Stato, o più semplicemente il prodursi di ragioni eccessive di scontento:

a) in primo luogo vi sono le classi nobiliari, ovvero quell'aristocrazia agraria la cui ricchezza (di carattere fondiario) è alla base della ricchezza stessa dell'Impero.

[Le stesse relazioni commerciali difatti, non potrebbero realmente sussistere se non vi fosse a monte una realtà produttiva che procura loro quelle merci che, attraverso le attività mercantili, vengono poi distribuite tra i territori della compagine imperiale, sia a ovest sia a est. Un tale soggetto produttore si identifica appunto in massima parte con i latifondi, realtà largamente fornite sia di schiavi sia dei mezzi necessari per la produzione e per la lavorazione dei prodotti su larga scala.

Se a ciò si aggiunge il prestigio universale di cui la classe nobiliare e terriera gode all'interno della società romana, per il fatto di situarsi all'origine di tutti i suoi successivi sviluppi (e ciò soprattutto per le zone occidentali, essendo quelle orientali portatrici di una storia e di tradizioni fondamentalmente differenti e autonome rispetto alle prime) si capirà facilmente quanta considerazione tale classe possa reclamare anche dall'autorità del principe.]

b) in secondo luogo troviamo il Senato, quell'istituzione cioè che - per consolidata tradizione - costituisce l'ossatura stessa dello Stato romano, oltre che l'elemento fondamentale alla base della sua stabilità e della sua continuità politica, e che inoltre è - come universalmente noto - il principale organo che rappresenta gli interessi e le idee della nobiltà fondiaria (in un primo tempo solo di quella romana, in seguito anche di quella italica e, infine, in generale di tutto l'impero).

[Le manifestazioni di riguardo verso una tale istituzione avranno quindi molte e profonde implicazioni: attraverso esse infatti l'Imperatore dimostrerà anche di portare un profondo rispetto per le tradizioni patrie (e con esse, per la stessa potenza di Roma), verso la cultura dell'Occidente latino (in opposizione a quella orientale, che inizia oramai a diffondersi nelle stesse regioni occidentali), ed infine verso l'autorità - il cui fondamento non è solo di carattere politico e economico, ma anche ideologico - della classe nobiliare e fondiaria occidentale: una classe cioè che si sente ed è molto più antica dell'Imperatore, e che - per tale ragione - rivendica per sé una fetta di potere notevole, limitando così lo stesso predominio politico del primo.]

c) in terzo luogo vi sono le province occidentali, essenzialmente Gallia e Spagna, divenute oramai potenze indipendenti e concorrenti rispetto all'Italia.

[Quelle che infatti, ancora al tempo di Giulio Cesare, erano solo delle regioni semi-civilizzate, sono ormai divenute degli organismi politici e economici estremamente sviluppati, dotati di una propria amministrazione, di un proprio esercito e spesso anche di una propria identità culturale e politica. Come tali esse non possono più venire ignorate nelle loro peculiari esigenze, se non a prezzo di notevoli rischi (come vedremo meglio quando parleremo di Nerone).]

d) infine, un ultimo elemento con cui l'Imperatore deve confrontarsi sono le regioni orientali dell'Impero.

[Queste ultime, pur godendo di una forte autonomia rispetto alle zone occidentali, in ragione sia della propria autonoma tradizione storica che del successivo inserimento nell'Impero [si badi inoltre che una vera e propria integrazione tra le due parti non vi sarà mai!], possono mostrarsi più o meno docili di fronte al giogo della dominazione romana, a seconda di quanto le loro prerogative culturali e politiche vengano da essa rispettate e assecondate. Anch'esse perciò richiedono una gestione oculata, ben conscia della necessità di tener conto della loro peculiare sensibilità sociale e politica, scarsamente assimilabile a quella occidentale romana.]

Compito arduo del princeps è dunque quello di 'addomesticare' tutti questi elementi, tra loro eterogenei e potenzialmente ostili, al fine di non creare o comunque di non alimentare ulteriormente pericolose situazioni di conflittualità interna.

Situazioni simili infatti troppo facilmente si rivolterebbero contro di lui, portando alla sua eliminazione fisica e politica - oltre che alla fine stessa del suo principato - qualora a causa di esse egli fosse giudicato inadeguato dai suoi sudditi più influenti ad adempiere il proprio compito istituzionale.

martedì 4 febbraio 2014

Età Flavia 69-96 D.C.:LA POLITICA RESTAURATRICE



ETÀ DEI FLAVI 69-96 A.C

Vespasiano, Tito, Domiziano: periodo felice durante il regno dei primi due imperatori, mentre il comportamento di Domiziano è più vicino a quello di Caligola e di Nerone e lo porta alla morte di congiura di matrice aristocratica.
Nell'anno 69 d.C. Muore Nerone, l'ultimo imperatore appartenente alla dinastia giulio-claudia. L'anno 68-69 è chiamato l'anno dei 4 imperatori, il quarto è Vespasiano, il primo della dinastia flavia. I quattro imperatori vengono eletti in successione rapida, non necessariamente a Roma, ma anche nelle provincie, dall'esercito e dai pretoriano che hanno acquisto grande potere e importanza. Dopo l'eliminazione di Domiziano, vengono eletti prima Marco Cocceio Nerva poi Traiano, la cui conquista di Dacia segna la massima estensione dell'impero romano.
I quattro imperatori dopo la morte di Nerone sono:
1. Galba, nominato a Roma;
2. Otone, generale di truppe a Lusitania, conduttore della sommossa dei pretoriano contro Galba;
3. Vitellio: generale di truppe in Germania, sconfigge Otone;
4. Vespasiano: imperatore dominato per domare la rivolta dei Giudei. Un generale di formazione militare, lascia il comando dell'esercito al figlio Tito, sconfigge Vitellio e conquista il potere.
Vespasiano è un abile amministratore, non sperpera. La sua politica lo rende un “novello Augusto”: rifonda l'impero che era ormai degenerato anche agli occhi dei sudditi a causa della dinastia giulio-claudia, affinché l'opinione pubblica abbia una giusta idea dell'imperatore.
La lex de imperio di Vespasiano: è una legge con cui il senato sancisce tutti i poteri del principe e stabilisce la prerogativa dell'imperatore. A Nerone “imperatore esibitore” si sostituisce un imperatore amministratore.
Tito (79-81), molto amato da essere chiamato “Deliciae generi humani”. Amabile e affabile, grande umanità, reazioni efficaci alle calamità (come l'eruzione del Vesuvio) con soccorsi immediati. Durante il suo impero, precisamente nell'anno 80, viene completata la costruzione dell'anfiteatro flavio, chiamato Colosseo: viene inaugurato con una festività di 100 giorni.
Negatività di Tito: distruzione totale del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. (rimane solo il muro del pianto) → Giudea completamente sottomessa con cui inizia la diaspora degli ebrei.
Domiziano: ritorna a Nerone con una svolta autocratica, in quanto il potere viene esercitato solo per sé, autoritario e assoluto, non vincolato. Pretese di essere chiamato “Dominus et deus”, reincarnazione divina: questo fatto è dovuto alla penetrazione delle mode orientali di età ellenistica sui modi di governo. Clima teso a causa soprattutto del costume della delazione e la lesa maestà. Forte censura che non lascia la libertà di espressione.

QUADRO CULTURALE
Emergono:

Controllo molto stretto sulla cultura: Vespasiano esercita questo controllo perché è molto impegnato nella rifondazione dell'impero e trascura l'ambito culturale. Questo controllo ha due fini: 1) ritorno all'età augustea per salvare l'impero ormai screditato; 2) stroncare sul nascere qualsiasi forma di opposizione;
Burocratizzazione degli intellettuali: l'istruzione superiore mira creare dei burocrati della parola, dei fedeli funzionari ed esecutori di ordini superiori.

La disciplina più importante nella formazione è la retorica, mentre prima era la filosofia che ora viene vista come un pericolo dagli imperatori in quanto è ideologicamente libera → avversione per l'insegnamento filosofico che porta a bandire alcuni filosofi. La burocratizzazione degli intellettuali mira a creare funzionari abili e a eseguire ordini superiori e veicolare le direttive degli imperatori → il burocrate intellettuale è una figura nuova. Il fisco imperiale finanzia le cattedre di retorica che viene considerata l'ultima tappa della formazione di un burocrate intellettuale.
All'ideale di libertas si sostituisce l'ideale del servizio verso l'imperatore e verso lo stato: colui che serve più fedelmente è il più prestigioso. Il momento più buio è con Domiziano: censura sistematica che si traduce nel bruciare le opere e mettere a morte gli autori. Gli “annales” di Tacito ne parla. Il rapporto con l'intellettuale risulta complicato e caratterizzato dalla tensione, in cui l'autore si deve piegare al governo.



Marco Fabio Quintiliano
--- Calahorra, Spagna 35 ca – Roma 95 ca d.C. ---


Già dall’età classica l’esigenza di comunicare tra individui è stata oggetto di studio approfondito da parte dei filosofi di tre discipline fondamentali: Dialettica, Retorica e Oratoria. Quintiliano fu il maggiore maestro e teorico dell’eloquenza nell’età imperiale e fu con lui che la comunicazione diventò formativa, dove la comunicazione oratoria/retorica (eloquenza) si fonde con quell’educativa/istruttiva (scienza pedagogica). Per Quintiliano la retorica era il perno delle attività culturali e spirituali dell’individuo; l’oratore non era solo un tecnico della parola, ma soprattutto un uomo partecipe appieno dei molteplici aspetti della realtà in cui viveva e con cui si misurava per mezzo dei suoi discorsi.


Vita.

Maestro di retorica pagato dal fisco imperiale. Giunto a Roma nel 68 d.C., ivi fu educato alla scuola di illustri maestri di eloquenza. Esercitò in Spagna l’insegnamento e l’avvocatura con notevole successo, finché fu richiamato a Roma da Galba, nel 68 d.C., dove esercitò l'avvocatura e (soprattutto) incominciò la sua attività di maestro di retorica, con tanto successo che nel 78 Vespasiano gli affidò quella che può ben dirsi la prima cattedra statale in assoluto: l'imperatore gli accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando così riconoscimento all'importanza dell'arte retorica nella formazione della gioventù e soprattutto mostrando (discorso, questo, valido del resto per tutti i Flavi) d'aver ben capito l'importanza della retorica come strumento per la formazione del futuro "ceto dirigente" e per l'adesione delle coscienze (e quindi per la creazione del consenso).

Ma se la vita pubblica di Q. fu abbastanza agiata, quella privata fu turbata da gravi sventure domestiche: la morte della moglie giovanissima e di due figli che da lei aveva avuto. Fra i suoi numerosi allievi, ebbe Plinio il Giovane e, forse, Tacito; Domiziano lo incaricò dell’educazione dei suoi nipoti, cosa che gli valse gli "ornamenta consolatoria". Nell’88 si ritirò da tutto per darsi completamente agli studi, in specie al suo capolavoro.



Le opere:

Perdute:



De causis corruptae eloquentiae: il trattato si inseriva nell’annoso dibattito sulle cause della decadenza dell’eloquenza, identificate da Quintiliano nella corruzione morale degli insegnanti (egli cita come esempio Remmio Palèmone), nel malcostume della delazione, che si serviva spesso dell’eloquenza con finalità ricattatorie, e nella degenerazione del gusto letterario, il cui principale responsabile per Quintiliano è Seneca.


Artis rhetoricae libri: in 2 libri, erano dispense raccolte dagli allievi di Quintiliano e pubblicate contro la sua volontà.



Conservate:


Institutio oratoria
in 12 libri, iniziata nel 93 e pubblicata poco prima della morte di Domiziano (96);

19 declamationes maiores e 145 declamationes minores (che originariamente erano 388), tutte spurie; le maiores sono frutto di un falso del IV sec., le minores, invece, risalgono al I-II sec. (queste ultime sono almeno di scuola quintilianea).

L'Institutio oratoria:

Dedicata a Vitorio Marcello, oratore ammirato da Stazio e amico di Valerio Probo, è preceduta da una lettera a Trifone, l'"editore" che deve curarne la diffusione.


Piano dell’opera:

Libri 1-2: celeberrimi, sono di contenuto pedagogico: trattano dell'insegnamento elementare e superiore e dei doveri dell'insegnante.

Libri 3-9: trattazione tecnica delle prime 3 sezioni della retorica: inventio, dispositio, elocutio.


Libro 10: come acquisire la facilitas, la disinvoltura nell'esprimersi; excursus sulla produzione letteraria greca e latina.

Libro 11: le ultime 2 sezioni della retorica: memoria ed expositio (o actio).

Libro 12: i requisiti culturali e morali dell'oratore; i rapporti fra l'oratore e il princeps.

Temi dell'opera:

La corruzione dell'eloquenza, di cui Quintiliano si era già occupato nell’opera specificamente dedicata all’argomento, è per lui conseguente alla degradazione morale di un’intera generazione ed è particolarmente evidente dal decadimento delle scuole (in cui l'affermarsi delle declamationes è per Quintiliano un sintomo di decadenza anche letteraria e di gusto).

L'Institutio oratoria vuole essere proprio il programma di rifondazione della scuola.

Anzitutto Quintiliano prende in esame, nei primi due libri, la delicata questione del rapporto educativo, delineando quale dev’essere il ruolo del docente a tutti i livelli d’insegnamento ed indicando come necessità primaria la serietà morale; da questa parte introduttiva emerge con chiarezza l’altissimo concetto dell’educazione proprio dell’autore, l’estrema serietà del suo impegno in tal senso, l’acume psicologico con cui si accosta al discente, con profondo amore e straordinario rispetto, fornendo indicazioni di valore universale agli insegnanti ed agli educatori di tutti i tempi.

Quindi, nel delineare i contenuti dell’insegnamento medio superiore, Quintiliano riprende programmaticamente l'eredità di Cicerone, adattandola ai propri tempi, nella convinzione che un uso linguistico "sano" sia nello stesso tempo conseguenza e causa di un atteggiamento mentale (e di conseguenza morale e sociale) "sano". Uno stile come quello di Seneca, ad esempio, che disarticola il periodo e sottintende i connettivi sintattici, risulta a parere di Quintiliano profondamente diseducativo per i giovani, perché impedisce loro di cogliere i nessi logici esistenti fra le cose; al contrario, uno stile che preveda una rigorosa organizzazione sintattica li abituerà a stabilire rapporti gerarchici corretti fra i molteplici aspetti della realtà: questo modello stilistico "classico" è chiaramente identificato da Quintiliano nelle ampie e ben strutturate architetture linguistiche di Cicerone.

Lo stile del perfetto oratore, tuttavia, non deve riecheggiare quello ciceroniano in modo pedissequo e manieristico: Quintiliano auspica soprattutto l'equilibrio fra i due eccessi più in voga al momento, quello dell’asciutto arcaismo e quello dell'asianesimo sovraccarico ed ampolloso (Lucano) oppure conciso e martellante (Seneca); per questo suo ideale di equilibrio classico Quintiliano sarà molto amato dalla cultura del Rinascimento.

Come Cicerone, così anche Quintiliano è convinto che il buon oratore debba possedere un'ampia cultura; tuttavia per lui la filosofia appare meno importante che per Cicerone.

L'intellettuale e il potere:

Quintiliano nel 12° libro dell’Institutio affronta il delicato tema dei rapporti fra l’intellettuale ed il potere imperiale.

Egli accetta l'autorità del principato, ma non incondizionatamente: deve trattarsi di un "buon" principato, di un governo illuminato che permetta all’intellettuale di ritagliarsi i suoi spazi di indipendenza e di dignità professionale, di svolgere un ruolo importante per il principe e per la società, evitando gli opposti eccessi (deprecati anche da Tacito) della sterile opposizione al principato e del servilismo, fungendo da guida per il senato ed il popolo.

Il suo è per molti versi un giudizio miope ed antistorico: in una realtà come quella del principato, la sola libertà possibile per un intellettuale "integrato" è quella dell’ossequio nei confronti delle direttive di regime, e se la situazione può apparire positiva è solo perché si verifica casualmente una coincidenza di vedute tra il letterato ed il princeps: in caso contrario non vi sono correttivi possibili ed all’intellettuale non resta che il silenzio. D’altronde come potrebbe essere diversamente, quando l’oratore non è che un subalterno (principescamente stipendiato!), un "burocrate della parola" (Conte), un onesto funzionario che comunica al pubblico le direttive del princeps, mediate dalla forma letteraria?

Ben più lucida sarà la diagnosi formulata da Tacito (se è suo il Dialogus de oratoribus), secondo il quale la fine della libertà repubblicana ha determinato di fatto per gli intellettuali, e per gli oratori in particolare, la perdita di ogni incidenza politica e l’impossibilità di ricoprire un ruolo socialmente rilevante (di qui la decadenza dell’eloquenza e della cultura in genere).



Le fonti dell’educazione



Il processo educativo di Quintiliano prevede due parti essenziali: “L’EDUCAZIONE MORALE e L’EDUCAZIONE INTELLETTUALE”; il loro sviluppo viene affidato a quelle che erano le istituzioni tradizionali dell’educazione romana:

La “FAMIGLIA” e la “SCUOLA”.



La famiglia

La prima fase dell’educazione del fanciullo[2] era affidata alla famiglia, nella quale, Quintiliano riconosce anche sé, contro tradizione, l’efficacia della madre anche nel campo della cultura.

L’ambiente familiare aveva il compito di impartire una prima formazione morale, ritenuta da Quintiliano, basilare ed essenziale per la formazione dell’uomo e quindi dell’oratore e, inoltre, quello di curare un corretto apprendimento del linguaggio, con la precauzione di tenere lontano dalle orecchie e dalle labbra del fanciullo ogni linguaggio poco pulito.

La preoccupazione di Quintiliano, era quella di non trascurare questo primo periodo della vita, perché, il fanciullo fin dalla nascita, osserva, ascolta e tenta con l’imitazione di riprodurre le espressioni degli altri conservando fortemente quelle impressioni che tanto sono più cattive tanto più restando tenaci nell’animo del fanciullo. Quindi, si può capire, come sia fondamentale, per Quintiliano, il possesso di una buona moralità degli adulti che stanno affianco dei fanciulli;

Nell’indicare gli adulti, egli, si riferisce non solo ai genitori ma a tutti gli altri che gli sono a contatto come le nutrici, gli schiavi e soprattutto i pedagoghi.



Il maestro

Per Quintiliano l’atto educativo non è un processo naturale, bensì un atto intenzionale che deve essere affidato a chi sappia guidare il minore nella sua ascesa verso la maturità: questa figura è quella del maestro.

Figura necessaria non solo come tecnico del sapere ma anche come uomo, capace di instaurare un nuovo rapporto educativo fondato sul reciproco senso di stima e affetto; il maestro, dice Quintiliano, tratti i suoi discepoli sempre come piccoli uomini e loro lo considerino un genitore spirituale, un modello a cui gli alunni si propongono di imitare.

Occorre che il maestro sappia contemperare la sua autorità con la benevolenza; autorità fondata sul fatto che sia il maestro ad impostare e giudicare l’educazione.

Uno degli aspetti nei quali si esprime la comprensione che egli ebbe del fanciullo, e’ quello che concerne i premi e i castighi: “Fin dai primi anni si comincino a lodare i suoi tentativi e lo si ricompensi con opportuni premi; quando qualcosa non va, il maestro trovi il modo più efficace per rendere consapevoli i discepoli del loro torto, ma in modo di non scoraggiarli e stimolarli a far meglio[3]. E’ ovvio che in questa raffigurazione del maestro, Quintiliano, disconosce l’uso dei castighi in genere e, particolarmente dei castighi corporali: inutili e offensivi per la dignità del minore.

La figura del maestro che egli descrive, esprime tutta la sua fede nell’atto educativo: sia, il buon maestro, d’onesti costumi e abbia una solida cultura, sia fermo nei suoi principi e abbia fede negli ideali, sia ottimista sulla natura degli uomini e sull’efficacia del proprio magistero educativo, sia affabile e modesto e si lasci guidare dall’affetto per la propria opera.

Il maestro, afferma Quintiliano, deve conoscere, anche, la psicologia dei suoi alunni per permettergli la comprensione del discepolo e adeguare l’opera educativa alla sua personalità e al suo particolare momento psicologico.






domenica 26 gennaio 2014

La poetessa dell'olocausto



LETTURA: Per la Giornata della Memoria: il “Coro dei superstiti” di Nelly Sachs

Scrivevo due anni fa, e riconfermo ogni parola,aggiungo da Lettere Migranti anche la traduzione di Anna Maria Curci .



Il 27 Gennaio una data stabilita per legge. Ma la memoria non può essere identificata con una sola data (anche se il 27 gennaio è la data in cui gli alleati liberarono e aprirono agli occhi del mondo il campo di concentramento di Auschwitz). Perciò pubblico oggi una poesia di Nelly Sachs, forse la poetessa che più di altri ha saputo parlare dello sterminio degli ebrei, dei campi di concentramento, dei forni crematori, anche se non è stata ospite in nessuno dei campi allestiti dai nazisti. Lei è riuscita a riparare in Svezia (nel 1940), dove poi è sempre vissuta, facendo la traduttrice.


Nata a Berlino nel 1891, è morta a Stoccolma nel 1970. Ha scritto alcuni libri di poesie che sono tra le più drammatiche testimonianze dell’Olocausto. Ma anche dell’esilio, della condizione dell’ebreo errante. Ho scelto questa poesia di Nelly Sachs, Coro dei superstiti, perché è bella e famosa, ed è sul piano testimoniale molto intensa. Lei è stata insignita del Premio Nobel nel 1966. Quindi la lettura di questo testo – a mio parere – porta con sé un’amplificazione del suo significato che per un evento come il Giorno della Memoria è molto importante. La motivazione del Nobel diceva: ”Per la sua lirica lirica notevole e la scrittura drammatica, che interpreta il destino di Israele con forza toccante”. Quello che è singolare nella sua vita è che tutto ciò che aveva scritto prima dell’espatrio, abitando in Germania, lei lo ha rifiutato, disconosciuto. Come se fosse nata alla scrittura soltanto quando la realtà irreparabile del genocidio l’ha fatta diventare “vedente”. E pur non avendo visto i lager nazisti (se non dopo), ha interpretato la grande disperazione, la grande tragedia, come forse nessun altro. Tra le altre cose ha scritto i poemi drammatici Segni sulla sabbia (Zeichen im Sand, 1962), Incantesimo (Verzauberung, 1970). inoltre, le seguenti raccolte di liriche: Nelle dimore della morte (In den Wohnungen des Todes, 1947), Fuga e trasformazione (Flucht und Verwandlung, 1959), Al di là della polvere (Fahrt ins Staublose, 1961), Alla ricerca dei viventi (Suche nach Lebenden, 1971). Gli uni e le altre vivono una lingua di grande intensità metaforica, che parlano della storia e delle vicissitudini del popolo ebraico nel passato e nel presente.
Chor der Geretteten

Wir Geretteten,
Aus deren hohlem Gebein der Tod schon seine Flöten schnitt,
An deren Sehnen der Tod schon seine Bogen strich –
Unsere Leiber klagen noch nach
Mit ihrer verstümmelten Musik.
Wir Geretteten,
Immer noch hängen die Schlingen für unsere Hälse gedreht
Vor uns in der blauen Luft –
Immer noch füllen sich die Stundenuhren mit unserem tropfenden Blut.

Wir Geretteten,
Immer noch essen an uns die Würmer der Angst.
Unser Gestirn ist vergraben im Staub.
Wir Geretteten
Bitten euch:
Zeigt uns langsam eure Sonne.
Führt uns von Stern zu Stern im Schritt.
Laßt uns das Leben leise wieder lernen.
Es könnte sonst eines Vogels Lied,
Das Füllen des Eimers am Brunnen
Unseren schlecht versiegelten Schmerz aufbrechen lassen
Und uns wegschäumen –

Wir bitten euch:
Zeigt uns noch nicht einen beißenden Hund –
Es könnte sein, es könnte sein
Dass wir zu Staub zerfallen –
Vor euren Augen zerfallen in Staub.
Was hält denn unsere Webe zusammen?
Wir odemlos gewordene,
Deren Seele zu Ihm floh aus der Mitternacht
Lange bevor man unseren Leib rettete
In die Arche des Augenblicks.
Wir Geretteten,
Wir drücken eure Hand,
Wir erkennen euer Auge –
Aber zusammen hält uns nur noch der Abschied,
Der Abschied im Staub
Hält uns mit euch zusammen.

Nelly Sachs
Dal ciclo di poesie Aus den Wohnungen des Todes (Dalle dimore della morte), pubblicato nel 1947.

Coro dei salvati

Noi salvati,
Dalle cui ossa cave la morte ha già intagliato i suoi flauti,
Sui cui tendini la morte ha già fatto scorrere i suoi archetti –
Risuona ancora il lamento dei nostri corpi
Con la loro musica mutilata.
Noi salvati,
Pendono ancora i cappi ritorti per le nostre gole
Dinanzi a noi nell’aria azzurra –
Ancora le clessidre si riempiono del nostro sangue stillante.

Noi salvati
Ancora si cibano di noi i vermi dell’angoscia
La nostra stella è sepolta nella polvere.
Noi salvati
Vi chiediamo:
Mostrateci pian piano il vostro sole.
Di stella in stella riportateci al passo
Fateci apprendere di nuovo, a voce bassa, la vita.
Potrebbe darsi, altrimenti, che il canto di un uccello,
Il secchio che al pozzo si riempie
Forzino il nostro dolore sigillato malamente
E come schiuma ci spazzino via-

Vi chiediamo:
Non ci mostrate ancora un cane che morde –
Potrebbe darsi, potrebbe darsi
Che polvere diventiamo –
Dinanzi ai vostri occhi ci disfiamo in polvere.
Che cosa tiene insieme la nostra tela?
Noi divenuti senza respiro,
La cui anima volò a Lui dalla mezzanotte
Molto tempo prima che portassero in salvo il nostro corpo
Nell’arca dell’attimo.
Noi salvati
Vi stringiamo la mano,
Riconosciamo il vostro occhio –
Ma insieme ci tiene ancora soltanto il distacco,
Il distacco nella polvere
Ci tiene uniti a voi.

Nelly Sachs
(traduzione di Anna Maria Curci)




“Noi superstiti”. L’identificazione con chi è scampato allo sterminio, alle camere a gas, permette di eternare la tragedia immane del popolo ebraico sacrificato alla megalomania distruttrice di un potere cieco e bieco, fondato sulla violenza e sul razzismo, come quello nazista. E ancora di più oggi il ricordo dello status di superstite dai lager, con il quale si accomuna chiunque sia riuscito a evitare l’internamento, chiunque sia riuscito a salvarsi da quell’esperienza e da quella morte, fissa nello specchio della storia l’eccidio realmente avvenuto, nonostante tutte le negazioni che possano essere affermate. Come possono persone di cultura come il vescovo lefebvriano Richard Williamson e il priore della Madonna di Loreto (a Spadarolo, nel comune di Rimini), Don Floriano Abrahamowicz, Don Floriano in più avrebbe detto che in fondo le camere a gas sono state usate per disinfettare. Disinfettare che cosa? Ma sembra abbia detto ancora, il priore, che le sue parole sono state travisate. E ha sostenuto che avesse invece detto che non sa se le camere a gas siano state usate veramente per uccidere. Beh, non cambia nulla. Come si può oggi, dopo le testimonianze lasciate da chi è stato appunto “superstite” (vale la pena ricordare i tanti libri scritti da Primo Levi, di cui lo scorso anno ho proposto la poesia d’apertuta del llibro Se questo è un uomo) e dopo che sono stati archiviati diverse centinaia di filmati girati nei campi dagli stessi nazisti (quindi non considerabili finti come fossero semplici “sceneggiati” di pura invenzione), sostenere che i campi di sterminio non sono esistiti? La vera iattura non è dimenticare, è invece sostenere una falsità nonostante le prove e le testimonianze dirette sull’evento più pernicioso del secolo scorso. Ricordare quindi, non dimenticare, ma anche opporsi esibendo sempre prove indiscutibili alla rimozione falsificante e strumentale della realtà storica. E la poesia non è il verbo che apre la verità, di qualsiasi cosa essa parli? Che la poesia dunque sappia, possa, voglia, incunearsi nell’incredulità di chi non sa o non vuole sapere. Ottavio Rossani

venerdì 17 gennaio 2014

PER NON DIMENTICARE


ROSA LUXEMBURG (1871-1919)

A 90 anni dalla sua scomparsa, un invito a tutte a conoscere la grande
rivoluzionaria socialista, nata in Polonia e vissuta in Germania,
protagonista internazionale della sua epoca di una lotta implacabile per la
liberazione.