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sabato 28 settembre 2013

ETA' GIULIO-CLAUDIA


Il quadro storico
Il governo di Tiberio (14-37)


Questa età fu caratterizzata dal necessario consolidamento dell’istituzione imperiale. Il modello di principato che si scelse di creare fu a base dinastica: prima della sua morte, Augusto nominò suo successore Tiberio, figlio della seconda moglie Livia Drusilla.
Una volta salito al trono, Tiberio volle adottare una linea di politica simile a quella del suo predecessore. Attento al buon governo delle province ed ostile allo spreco di denaro, Tiberio cercò di mantenere buon rapporti con il senato, che interpellò sempre nelle circostanze più critiche.
Sebbene sotto Tiberio l’impero non si estese molto, esso ottenne l’annessione della Cappadocia e si preoccupò principalmente di difendere le frontiere settentrionali e orientali, rafforzando i confini.
Gli ultimi anni di Tiberio furono caratterizzati da una serie di incomprensioni col senato, da intrighi all’interno della sua stessa famiglia e dal tentativo di congiura ordito da Elio Seiano e sventato da Tiberio stesso nel 31 d.C.
I principati di Caligola (37-41) e Claudio (41-54)

Tiberio designò come suo successore l’unico figlio maschio del nipote Germanico (che era amatissimo dal popolo e dalle truppe romane ed era morto in circostanze misteriose nel 19 d.C.) Gaio Cesare, passato alla storia come Caligola. (damnatio memoriae)
Ancora ragazzo Caligola aveva assistito alla distruzione della sua famiglia ed è ciò che ha probabilmente provocato la sua instabilità di carattere e le sue manifestazioni di crudeltà e violenza. Così dopo inizi promettenti fu una delusione per il popolo romano. Un gruppo di senatori e cavalieri ordì con la complicità dei pretoriani una congiura in cui Caligola morì.
Alla morte di Caligola succedette Claudio, fratello di Germanico. Egli cercò di seguire l’esempio di Augusto e Tiberio, mostrandosi rispettoso delle prerogative del senato, sostenne l’integrazione delle province dell’impero e favorì la romanizzazione della Bretannia. Sotto di lui l’impero si estese alla Licia, alla Tracia e alla Mauritania.
Claudio affidò l’amministrazione burocratica ad un apparato di liberti, che si rivelarono particolarmente devoti e fedeli, ma suscitarono l’aperta ostilità dei senatori. Alla fine l’imperatore cadde vittima di una congiura di corte ordita dalla moglie Agrippina Minore, che era riuscita ad ottenere che la successione toccasse al figlio Nerone.
Nerone (54-68)

Il governo di Nerone presenta due fasi ben distinte. I primi cinque anni del suo principato furono caratterizzati dalla presenza come consigliere di Afrannio Burro e di Seneca, che condizionarono le scelte del sovrano improntandole sul rispetto delle tradizioni e dell’autorità del senato. Nel 58 d.C. però Nerone fece uccidere la madre Agrippina e imprsse una svolta autocratica al proprio governo, manifestò ostilità nei confronti del senato. Intraprese una politica demagogica, al fine di ottenere il favore della plebe urbana. Promosse, inoltre, la prima persecuzione delle comunità cristiane.
Dopo aver sventato una congiura nel 65 d.C. non riuscì a sedare l’opposizione delle province occidentali, nel giugno del 68 fu dichiarato nemico pubblico dal senato e si tolse la vita; subi la damnatio memoriae. Con lui finì la dinastia giulio-claudia.
Fedro
Dati biografici

Fedro scrisse sotto gli imperatori giulio-claudi e fu il principale rappresentante latino di un genere minore, la favola, che prima di allora era sconosciuto alla letteratura romana.
Nato in Macedonia, venne a Roma da bambino molto probabilmente come schiavo, fu probabilmente un libertus Augusti. È probabile che fosse stato affrancato dall’imperatore grazie alla sua cultura e che si sia dedicato all’insegnamento.
Fu perseguitato da Seiano, il dispotico ministro di Tiberio, che, urtato dal carattere satirico di alcuni suoi componimenti, lo fece processare e condannare con un’accusa pretestuosa.
Di Fedro ci sono pervenuti cinque libri di favole in versi (senari giambici). Un’altra trentina di favole sono state raccolte nell'Appendix Perottina, che un’umanista del XV secolo trascrisse da un codice oggi perduto.
Il modello della favola

Il modello cui Fedro si ispira è quello di Esopo. La forma più caratteristica assunta dalla favola esopica è quella dell’apologo animalesco, che ha per protagonisti gli animali parlanti, raffigurati secondo una tipologia tradizionale che li rende simboli trasparenti di carattere e di atteggiamenti umani.
Quando Fedro decide di mettere in versi le favole esopiche non sceglie l’esametro, che era divenuto il metro proprio della satira, ma adotta il senario giambico, ossia il verso tipico delle parti dialogate della commedia.
Contenuti e caratteristiche

I principali criteri di scrittura di Fedro sono la varietas e la brevitas. Poco numerosi, ma molto interessanti sono gli aneddoti storici di ambientazione romana.
La varietas è mossa dall’intento di superare gli schemi ripetitivi e un po’ angusti della favola animalesca, e si manifesta chiaramente nel passaggio dal I libro, quasi interamente dominato dagli animali parlanti, ai successivi, in cui compaiono spesso altri personaggi.
La brevitas è da intendere in riferimento non solo alla mole limitata dei libri e all’estensione modesta dei singoli componimenti, ma anche alla concisione, ossia alla capacità di condensare in breve i contenuti narrativi e gli insegnamenti morali. La brevitas si manifesta specialmente nei dialoghi, essenziali e pregnanti, scritti in linguaggio colloquiale.


I componimenti di Fedro presentano una struttura costante: lo schema metrico del senario giambico, la collocazione iniziale(Promitio) o finale (Epimitio),Ddella morale, il posto centrale dell'apologo, che si risolve per lo più in un dialogo fra due o più personaggi.
Caratteristica della favola è la presenza della morale, che qui segue l’esempio, spiegandone il significato allegorico o simbolico.
Non troviamo mai nelle favole conservate un atteggiamento propriamente satirico. L’intento moralistico e pedagogico sembra piuttosto rivolto genericamente contro i difetti e gli errori umani.
La morale che si ricava dal complesso delle favole è piuttosto amara e pessimistica, ma anche rassegnata, basata sulla constatazione che la legge del più forte domina sovrana nel mondo.








Caratteristiche dell’età giulio-claudia

Nell’età giulio-claudia si accentuò il fenomeno di disgregazione del rapporto fra gli intellettuali e il potere (ma già con Augusto v. Ovidio). Finché Mecenate era rimasto in vita, col suo prestigio e la sua influenza aveva fatto da tramite discreto tra il potere e gli uomini di cultura ed era riuscito ad assicurare a questi una certa autonomia. La sua morte venne a turbare ulteriormente la non sempre facile integrazione degli intellettuali all’interno delle direttive del principe e determinò una vera e propria rottura fra il potere e la cultura, rottura che si acuì sempre più in considerazione anche del deteriorarsi della situazione politica. Infatti l’età dei giulio-claudi vide il tramonto e la liquidazione di quel precario equilibrio fra il principe e il senato su cui si era retto lo stato durante l’età di Augusto, a tutto vantaggio del potere imperiale, che ora tende ad assumere con sempre maggior insistenza caratteri assolutistici.
Di fronte ad un potere sempre più intransigente e liberticida, gli intellettuali (che appartenevano per la maggior parte al rango senatorio, in rotta col potere imperiale) assunsero sostanzialmente tre posizioni diversificate: o scelsero la facile strada del consenso o si indirizzarono verso un velato atteggiamento di fronda e di non collaborazione con le direttive del principato o si orientarono, ma non furono in molti, verso un aperto dissenso.
Le voci più autentiche e significative di quell’età non sono quindi da cercare né in Velleio Patercolo né in Valerio Massimo, i quali concepirono la storia o come propaganda cortigiana o come repertorio di personalità modello, di exempla da utilizzare per le esercitazioni nelle scuole di retorica, ma nelle opere di Fedro, di Seneca, di Persio, di Petronio, in cui l’atteggiamento di fronda, variamente motivato e diversamente espresso, rivela la presenza di personalità che si pongono criticamente il problema del proprio ruolo di intellettuali e quello dell’autonomia della cultura: il dissenso di Fedro e la sua protesta contro i potenti ci arrivano filtrati, ma non sviliti, dalla simbologia degli animali che caratterizza le sue favole, la posizione frondista assunta da Seneca, sostenuta da una profonda riflessione filosofica, sfocia nell’affermazione di valori interiori che ad un certo punto gli appaiono del tutto inconciliabili con la politica del principe.
Su una linea diversa, più autonoma e disimpegnata dalla condizione del tempo, si muove, invece, l’attività letteraria di Persio, che nelle sue satire, se si esclude qualche accenno al malcontento nei confronti di Nerone, mostra di privilegiare i temi morali e letterari, rispetto a quelli più squisitamente politici. Infine l’atteggiamento di disimpegno ostentato da Petronio trova il suo sfogo più naturale nella ricerca della pura esteticità e nella raffinatezza di una vita intesa fino alla morte come opera d’arte.
Ma durante l’età dei giulio-claudi non mancarono voci di aperto dissenso nei confronti della politica del principe, soprattutto in Lucano e negli storiografi dell’opposizione filosenatoria. Il primo, malgrado il suo rapporto d’amicizia con Nerone in gioventù, non riuscì a chiudere gli occhi di fronte al dispotismo sanguinario del principe e quindi divenne con la sua opera il rappresentante più autorevole della cultura filosenatoria e dei valori della repubblica. Gli storiografi d’opposizione, poi, da Cremuzio Cordo a Aufidio Basso, furono i più esposti nell’opera di contestazione da parte del potere (Tiberio fece bruciare gli Annales di C.C. con l’accusa che si trattava di un’opera nostalgicamente filorepubblicana).
Tuttavia il dissenso degli intellettuali non si mantenne costante per tutta l’età, ma mutò col mutare dei principi, e raggiunse il suo momento più deciso sotto Nerone.
I caratteri della cultura
Anche se gli imperatori della casa giulio-claudia non riuscirono ad imporre una propria politica culturale, di fatto la modalità con cui avveniva la formazione dei giovani del tempo finiva col favorire un certo tipo di consenso, o, meglio, di sterile ed acritico conformismo intellettuale. La retorica prese subito il sopravvento sulle altre discipline che negli anni precedenti avevano orientato la formazione culturale dei giovani romani. In mancanza di libertà politica la retorica si indirizzò a suggerire le modalità con cui i giovani dovevano esercitarsi nelle declamazioni, nacquero così le controversiae e le suasoriae (Seneca il Vecchio).
Col diffondersi di tali esercitazioni retoriche la formazione culturale dei giovani s’impoverì sempre più e puntò sull’acquisizione di una serie di luoghi comuni e sullo sviluppo della libera fantasia più che sulla concretezza e sulla praticità. In questo clima caratterizzato da un grande ritorno alla retorica si ebbe un risveglio dell’asianesimo (che si era già diffuso in Roma nel I a.C).
Il recupero dell’asianesimo significava ridare enorme importanza, nella retorica, ai processi creativi e alla fantasia, che doveva operare senza alcun freno inibitore.
Il libero esplicarsi della fantasia poneva fuori gioco l’equilibrio e la simmetria che erano stati gli aspetti più appariscenti dell’arte augustea. Si afferma invece il culto dell’asimmetria, della varietas e della novitas, un gusto del nuovo, dello straordinario, del meraviglioso, che per certi versi è assai simile alla sensibilità che si affermerà in Europa nel ‘600 col Barocco.
Ai margini di questo gusto per il meraviglioso e in perfetta sintonia con il senso della caducità e della relatività del reale, si afferma anche un certo gusto per l’orrido e per il macabro, che, ad es., è presente in misura preponderante nel teatro di Seneca.
Lo stoicismo come ideologia del dissenso
Questa dottrina si era già diffusa ampiamente in età repubblicana, anzi con Panezio da Rodi aveva fornito un sostegno filosofico alla cultura del circolo filoellenico degli Scipioni. Successivamente, durante gli anni del principato augusteo, essa aveva finito col fiancheggiare l’opera di ricostruzione morale, politica e sociale dell’imperatore. Ora, in questa prima metà del I d.C., fino al principato di Nerone, lo stoicismo diventò l’asse ideologico intorno a cui ruotò gran parte del dissenso nei confronti della politica imperiale. La speculazione filosofica stoica adesso, si dedica infatti soprattutto ai problemi etici, anzi si può affermare che la filosofia finisce col coincidere addirittura con l’etica e diviene la disciplina che insegna a vivere, tanto che Musonio, uno stoico di questa età, arriva a sostenere che “essere buono ed essere filosofo è la stessa cosa”. Dunque compito del saggio stoico deve essere fondamentalmente l’esercizio della virtù, che consiste in un processo di interiorizzazione, nell’autonomia e nella libertà della coscienza. Questo ideale speculativo, in un momento in cui il principato andava assumendo sempre più connotazioni tiranniche, era destinato ad acquistare una spiccata valenza politica, e pertanto si spiega con una certa facilità perché la filosofia stoica divenne lo strumento culturale e ideologico preferito da quei gruppi di rango senatorio che osteggiavano il principe e deprecavano la perdita della libertà politica. A fianco dei filosofi stoici occorre ricordare la funzione esercitata negli strati popolari della società romana di questi anni dai cinici ( predicatori che giravano per le strade coperti da rozzi mantelli, scalzi, e diffondevano una filosofia alquanto popolare, che in effetti consisteva nell’enunciazione di alcune massime sulla vita pratica, ispirate sostanzialmente ad uno stoicismo semplificato e banalizzato).
GENERI LETTERARI
Il diffondersi di una sensibilità tendente al meraviglioso e allo straordinario e il libero dispiegarsi della fantasia nell’opera d’arte fecero sentire i loro effetti anche nella letteratura, soprattutto nell’ambito dei generi. L’ingenium sembra prevalere sull’ ars , o quanto meno su un’arte classicamente intesa. Dunque si percorrono vie nuove, nella certezza che le strade tradizionali sono ormai impraticabili, sia perché sono state già percorse fino in fondo dai poeti dell’età augustea, sia perché non appaiono più rispondenti alle nuove istanze della cultura del tempo. Di questo stravolgimento delle istituzioni letterarie risentono soprattutto i generi, che spesso mutano caratteristiche o tendono a fondersi in altri generi (es. Satyricon).
Si ha anche una certa tendenza alla sperimentazione e alla poligrafia (Seneca scrive opere filosofiche, satire e addirittura drammi)
Escludendo le opere di Seneca e di Petronio i generi che maggiormente si diffondono durante l’età dei giulio-claudi sono: la favolistica, la satira, l’epica, la storiografia, il teatro e la poesia e la prosa scientifica.
a) la favolistica Fedro riesce a dare a questo genere un carattere tutto proprio, in quanto non si accontenta più di utilizzare la favola come apologo o come pretesto, ma riesce a caricare i suoi componimenti di una velata, ma non per questo meno valida, protesta contro i potenti che opprimono senza via di scampo gli umili, ai quali va la simpatia del poeta.
b) La satira Con Persio la satira acquista un carattere fortemente moralistico e filosofico, che con Orazio non aveva avuto e diventa lo strumento per un’intransigente fustigazione dei vizi del tempo (influenza della filosofia stoica e soprattutto delle prediche dei cinici). Perde il carattere bonario nei confronti delle debolezze degli uomini e tende a diventare astratta riflessione moraleggiante che sconosce le debolezze ma anche la complessità del cuore umano.
c) L’epica Il poema epico perde i caratteri che aveva avuto durante il principato augusteo. Lo sforzo di Virgilio era stato quello di trasfigurare nel mito, e quindi in una dimensione atemporale, la storia di Roma e del suo principe; Lucano, invece, non rinuncia alla storia, e riprende l’antica tradizione epico-storica romana da Nevio a Ennio, descrivendo e trasfigurando artisticamente i fatti concernenti la guerra fra Cesare e Pompeo. Nel Bellum Civile l’interesse per la realtà storica si fonde con il gusto per il meraviglioso, per l’esotico e per l’immaginario (ambientazione paesaggistica, sogni di Pompeo), inoltre si ha una certa propensione per l’astrologia e per le scienze, discipline che in quegli anni incontrano una grande diffusione presso il popolo romano.
d) La storiografia Non è possibile tracciare un bilancio complessivo dell’attività storiografica di questo periodo, perché la produzione che esprimeva dissenso nei confronti del potere è stata censurata e quindi non ci è pervenuta. Ci resta la produzione più innocua, ma forse anche la meno valida, quella cioè che fiancheggiò l’opera del principato, o che tutt’al più si mise in una posizione di neutralità. Nell’ambito di questa storiografia sostanzialmente conformistica si collocano le opere di Velleio Patercolo, Valerio Massimo e Curzio Rufo.
e) La poesia e la prosa scientifica Si ebbe un grande sviluppo della scienza, dovuto probabilmente al fatto che si trattava di una disciplina non compromettente sul piano politico e che veniva anzi favorita dal principato, convinto di poter creare un miglioramento delle condizioni di vita di tutti i cittadini proprio attraverso la scienza e la sua successiva applicazione politica (Seneca “Naturales quaestiones”, Manilio “Astronomica”, Pomponio Mela, Celso, Columella)


La nascita di una nuova religiosità
Tutta l’età sembra percorsa da fremiti religiosi e da un’ansia di ricerca del divino che si esprime in forme diverse, ma che appare prodotta dall’insoddisfazione per la vecchia religione di stato (comunità cristiana già attestata in Roma negli anni dell’imperatore Claudio)
- setta dei Sesti La setta ebbe vita effimera e si basò quasi esclusivamente sulla personalità dei suoi adepti. Praticò una rigorosissima condotta di vita e si impegnò soprattutto ad additare la via per il perfezionamento interiore tramite la pratica di una vita ascetica. Tiberio ne impose la chiusura.

giovedì 19 settembre 2013

Il centenario di Roma capitale a Porta Pia



«la porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra; di materassi fumanti, di berretti di Zuavi, d'armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti». E.De Amicis



La presa di Roma

A Roma, all’alba del 20 settembre 1870, circa 15.000 soldati pontifici, in massima parte zuavi (volontari quasi tutti di provenienza francese, belga o olandese) erano pronti a fronteggiare le mosse degli assedianti, bersaglieri e fanti dell’esercito italiano che aspettavano da giorni la dichiarazione di resa dello Stato pontificio.



Alle 9 del mattino si udì il segnale dato da un generale piemontese, Raffaele Cadorna. Poi, nell’aria si diffusero il frastuono delle cannonate e il rumore del crollo del tratto di mura che si stende a qualche decina di metri da Porta Pia. Di fatto, i difensori non opposero resistenza. Il dominio temporale dei papi terminava dopo più di 1000 anni.

Un giovane ufficiale (e promettente scrittore) del regio esercito annotava in quel frangente: «la porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra; di materassi fumanti, di berretti di Zuavi, d'armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti». Il nome dell’ufficiale era Edmondo De Amicis, colui che avrebbe poi raggiunto la fama con Cuore.

Fu così, in un mattino di settembre, che l’esercito ottenne, quasi senza sforzo, ciò che appariva, solo pochi anni prima, una chimera, un miraggio. I militari italiani conquistavano l’obiettivo che Garibaldi non era stato in grado di raggiungere. Come fu possibile?

Poche settimane prima, all’inizio di quel settembre, si era consumata una battaglia destinata a cambiare gli equilibri politico-diplomatici in Europa per molti anni: la battaglia di Sedan. La Prussia di Bismarck era infatti entrata in guerra contro la Francia di Napoleone III, migliore alleato italiano ma, nello stesso tempo, maggiore protettore del dominio papale su Roma. Dopo l’Austria nel 1866, ora taccava alla Francia capitolare sotto i colpi dell’organizzatissima armata prussiana.

Nasceva l’Impero tedesco, il Secondo impero francese tramontava.

Venuta meno la protezione francese, a Pio IX non restò che rifugiarsi in Vaticano e dichiararsi prigioniero politico dello Stato italiano. L’Italia trovava così la sua capitale, ma, per contro, esplodeva la questione romana.

domenica 15 settembre 2013





Care ragazze e cari ragazzi,
Fate buon uso di questo tempo,anche perché la fatica dello studio diventa insopportabile se non è accompagnata da un interesse motivazionale forte e a largo respiro.

Un consiglio per voi 
Dobbiamo difendere la lettura come esperienza che non coltiva l'ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità, della durata. Una lettura concentrata, amante degli indugi, dei ritorni su di sé, aperta più che alle scorciatoie, ai cambiamenti di andatura che assecondano i ritmi alterni della mente e vi imprimono le emozioni e le acquisizioni.
(G. Pontiggia)

giovedì 18 aprile 2013

mercoledì 17 aprile 2013

Il Fu Mattia Pascal

Mattia Pascal, vive nell’immaginario paese ligure di Miragno, insieme alla madre e al fratello. Il padre ha lasciato loro in eredità una discreta fortuna consistente in case, terreni e vigneti. La giovane vedova, del tutto incapace di amministrare, affida però l’intero patrimonio a Batta Malagna, che avendo ricevuto in passato dal marito diversi favori ed essendo ricompensato lautamente per i suoi attuali servigi, avrebbe dovuto, secondo lei, amministrare onestamente. Batta Malagna invece, con il trascorrere degli anni, si impossessa di tutti i loro averi e costituisce la causa principale del declino della famiglia Pascal. I due fratelli Mattia e Roberto vivono allegri e liberi da ogni pensiero morale, religioso o scolastico e, una volta cresciuti, non si curano dei beni della famiglia, paghi di vivere senza apparenti problemi e in maniera agiata. Il Malagna ha avuto infatti la capacità di non fargli mancare nulla e di nascondere la voragine di debiti che presto li avrebbe fatti precipitare.
Costretto a sposare Romilda, da cui aspetta un bambino, Mattia si trova a convivere anche con la suocera vedova che lo disprezza e lo considera un inetto, un fannullone, un buono a nulla ricco soltanto di debiti. Da questo momento la vita di Mattia diventa un inferno. Ormai senza ricchezze, si trasferisce in una casa umile; la moglie perde la sua originaria bellezza e sembra non amarlo più; le due figlie muoiono una dopo l’altra a causa della loro gracilità. E muore anche l’adorata madre dopo aver sopportato i soprusi della suocera-strega la quale continua per il carattere di Mattia, ma soprattutto per la povertà di Mattia a odiare il genero e a rovinare la già precaria tranquillità della casa. Per la prima volta in vita sua il protagonista si ritrova a cercare lavoro, e grazie all’amico Pomino, ne trova uno come bibliotecario. Ma un giorno Mattia, angustiato dai dissidi coniugali e dai debiti, esasperato dalla noia e dalla inutilità del suo lavoro, decide di fuggire. Arriva a Montecarlo e grazie ad una serie di vincite fortunate si ritrova in tasca la somma di 82.000 lire. E’ quasi ricco! Decide di ritornare a casa per riscattare le sue proprietà e per godere di una rivincita sulla suocera; sogna finalmente una vita serena, un avvenire tranquillo al riparo della miseria. Ma proprio mentre questi pensieri occupano la sua mente, in treno durante il viaggio di ritorno a casa, legge su un giornale che a Miragno, nella roggia di un mulino, è stato ritrovato il cadavere di Mattia Pascal.
Legge e rilegge il trafiletto scritto in minutissimi caratteri e lo ripete tra se quasi sillabando, fermandosi ad ogni parola. Egli si sarebbe suicidato nella gora del molino alla Stia, una sua vecchia proprietà, a causa dei dissesti finanziari e dei lutti familiari. Ed era stato prontamente o forse frettolosamente riconosciuto dalla moglie disperata e dalla suocera. Dapprima sconvolto, comprende presto che può crearsi una nuova vita, una vita libera da ogni legame con il passato, senza problemi e senza responsabilità, proprio come quando era giovane. E’ ricco e non essendo più Mattia Pascal non ha più alcun creditore. Così con il nome di Adriano Meis comincia a viaggiare prima in Italia e poi all’estero, fino a che decide di stabilirsi a Roma, in un camera ammobiliata sul Tevere. Si innamora, ricambiato, di Adriana, dolce figlia del padrone di casa Anselmo Paleari. Mattia vorrebbe sposarla e ricominciare tutto da capo. Ma Adriano Meis non esiste, non ha una realtà sociale, non ha nessuno dei diritti che hanno i cittadini iscritti all’anagrafe. Non può acquistare nulla, non può denunciare un furto se derubato e tanto meno può contrarre matrimonio. Non può fare nessuna di quelle cose della vita quotidiana che necessitano di una identità. Capisce l’impossibilità di vivere fuori dalle leggi e dalle convenzioni che gli uomini si sono dati. La sua libertà è solo un’illusione. Scopre che fare il morto non è una bella professione. A Mattia non resta che farla finita anche con la nuova identità simulando il suicidio di Adriano Meis nelle acque del Tevere. Erano passati soltanto due anni dalla sua prima supposta morte. Eppure tante cose erano cambiate. La moglie Romilda era rimasta vedova ben poco. Si era infatti risposata proprio con il suo amico Pomino ed aveva avuto una bambina. Quanto era beffardo il destino… Lui, che aveva pensato di essere rinato e finalmente libero di fare ciò che desiderava, non aveva potuto vivere pienamente la sua nuova vita, ma era evidente che gli altri lo avevano fatto. Gli altri erano andati avanti anche senza di lui. Gli altri, a Miragno, avevano stentato a riconoscerlo e il suo ritorno non aveva, per lo meno inizialmente, causato lo scompiglio che si era immaginato. Mattia, ritornato con propositi di vendetta, ben presto li abbandona e lascia che la moglie e l’amico continuino a vivere il loro menage coniugale. A Mattia non resta che ritornare a fare il bibliotecario nell’umida chiesa sconsacrata e adibita a biblioteca comunale in un paese in cui nessuno legge e di andare di tanto in tanto a far visita alla propria tomba…

Mattia Pascal è il testimone esemplare dell’assurda condizione di uomo prigioniero delle “maschere sociali” di marito, di padre, di figlio, di fratello etc. che coprono la nostra vera identità. Esprime la sofferenza di quest’uomo, angosciato dall’impossibilità di sfuggire alle convenzioni e ai vincoli della società che sono una catena, un freno inibitore e che forse sono l’unico modo d’esistere. Fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete e tristi che siano per cui noi siamo noi… non è possibile vivere. Solitudine e sconfitta in una società creata dall’uomo, ma che non è a misura d’uomo. Pirandello in questo romanzo rappresenta tutta la crisi esistenziale e storica dell’uomo moderno. E questa rappresentazione, impregnata del contrasto tra realtà e illusione, consapevole dell’incapacità di essere totalmente artefici del proprio destino e del sopravvento del caso è inscenata con straordinaria semplicità in un misto di gioia e di sofferenza, di umorismo e amarezza, di comico e di tragico.

Narratore

La narrazione è condotta in prima persona; è Mattia Pascal, il protagonista, che raccontando ci fornisce il suo punto di vista interno con focalizzazione 0 (zero/onnisciente). L'onniscienza del narratore è dovuta dal fatto che lui racconta la sua storia a posteriori, quando questa è già successa; questo permette che al lettore vengano fornite anticipazioni degli avvenimenti che ne stimolano la curiosità.
Mattia Pascal scrive, su invito di don Eligio, la sua biografia sotto forma di diario, rivolgendosi direttamente al lettore, dialogando persino con lui.
L'ordine cronologico è regressivo, cioè lo scrittore ricorda fatti avvenuti in precedenza e va a ritroso nel tempo, salvo tornare al presente alla fine del racconto.

Tipologia testuale

Pubblicato nel 1904, in piena era Giolittiana, “Il Fu Mattia Pascal” è il primo romanzo italiano scritto in forma “autobiografica”, redatto cioè in prima persona, con la presentazione quindi di una visione esclusivamente soggettiva della vicenda, visione che nega la realtà se non colta con quella particolare percezione: la razionalità realista non esiste più, per ogni persona esiste, così, una visione personalissima della realtà. Tale situazione costringe il lettore ad una personificazione con il protagonista, ed al successivo sforzo di uscire da questo stato di “simbiosi”.
Il romanzo ha una struttura circolare, infatti inizia dalla conclusione, rivendicando la condizione particolare di Mattia Pascal, ritenuto morto, che assume una nuova identità, uccide fittiziamente anche quest’ultima, e quindi ritorna se stesso ma al di fuori della sua normale vita precedente, condizione di chi è fuori dal tempo e quindi fuori dalla vita (questo particolare tipologia di narrazione è estremamente innovativa).

Fabula e intreccio

Fabula e intreccio, ne "Il fu Mattia Pascal", non coincidono, se non nelle ultime pagine del romanzo. Il narratore, per il resto, racconta le vicende che gli sono  capitate a posteriori, dopo che queste si sono verificate.

Tempo

In tutta la vicenda mancano del tutto riferimenti cronologici precisi ed espliciti. Pirandello non ci dà date o altre precisazioni a riguardo. Dalle notizie che Mattia legge in treno su un giornale (Lessi che l'imperatore di Germania aveva ricevuto a Potsdam, a mezzodì; l'ambasciata marocchina e che al ricevimento aveva assistito anche il segretario di Stato, barone Richtofen. La missione presentata poi all'imperatrice, era stata trattenuta a colazione… Anche lo Zar e la Zarina avevano ricevuto a Peterhof una speciale missione tibetana, che aveva presentato alle LL. MM. I doni del Lama.) possiamo però capire che la vicenda si svolge tra la fine del ‘800 e gli inizi del ‘900. Sono riferimenti di fatti politici accaduti in Germania ed in Russia. Quindi per quanto riguarda la collocazione storica della vicenda, si limita a fare da semplice scenario: per Pirandello non sono fondamentali collocazioni spaziali e temporali precise, ciò che più conta sono i personaggi, i loro pensieri e le loro azioni. Così facendo la storia diventa assoluta perché la lezione di vita di Mattia è valida in ogni tempo ed in ogni luogo.

Durata
La narrazione dell'autore inizia dalla giovinezza di Mattia Pascal anche se in realtà il racconto vero e proprio ha la durata di due anni. Per quanto riguarda la durata dell’azione va considerato il tipo di narrazione utilizzato da Pirandello per la sua opera: è in prima persona attraverso il punto di vista di Mattia. L’intera vicenda è un enorme flashback, visto che Mattia racconta i fatti attraverso un diario su invito di don Eligio. Sono presenti anticipazioni che  preparano il lettore agli eventi successivi o che aumentano l’attesa dello svolgersi della vicenda. Perciò l’opera inizia con il Mattia maturo che ha già affrontato la vicenda ed in seguito viene ricordata tutto la sua vita: l ’infanzia, il matrimonio, la fuga dal paese verso Montecarlo, il lungo viaggio lungo l’Italia e la Germania, il soggiorno a Roma ed il ritorno a Mirano. La fine della storia si collega all’inizio dell’opera.

Spazio

L’incredibile avventura di Mattia-Adriano si svolge principalmente in due località e cioè a Miragno, il paesino ligure dove nasce Mattia ed a Roma, dove Adriano affitta una stanza ad una famiglia. Queste due località possono essere considerate le patrie delle due vite del personaggio. Dopo la scelta della libertà assoluta e della seconda vita Mattia viaggia moltissimo, visitando l’Italia e la Germania. Vengono citati paesi come Torino, Milano, Venezia, Firenze e poi ancora Montecarlo, Colonia, Worms e Magonza. Nonostante la molteplicità dei luoghi citati mai Pirandello si sofferma a descriverli, forse perché sarebbe inutile ai fini della storia interamente concentrata sulla molteplicità dei personaggi, sull’analisi dei caratteri e sulla maturazione di Mattia.

Tecniche narrative

Il romanzo "Il fu Mattia Pascal" è diviso in diciotto capitoli numerati e titolati più l'ulteriore Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, esterno alla storia ma aggiunto dallo stesso Pirandello al suo romanzo qualche anno dopo la prima stesura per dimostrare come le vicende di Mattia Pascal, seppure straordinarie e quasi inspiegabili, possano realmente accadere.
La struttura narrativa de "Il fu Mattia Pascal" non è quella tradizionale dei romanzi in cui il protagonista racconta le proprie vicende. L'opera si apre con due premesse: la prima in cui ci viene presentato il protagonista-narratore e il suo strano caso; e la seconda, "filosofica", nella quale lo stesso autore ritiene necessario esporre la sua concezione a riguardo dell'uomo e della vita. Dopo le due premesse inizia una lunghissima analessi che qualche volta sarà interrotta da alcune anticipazioni dell'autore, spesso molto brevi.
Le sequenze narrative all'interno del romanzo, sono, assieme a quelle riflessive e dialogate le predominanti. Quelle riflessive portano spesso l'autore a vere e proprie considerazioni di carattere filosofico, mentre quelle dialogate sono caratterizzate per lo più dal discorso indiretto, da quello diretto libero e da monologhi interiori dello stesso io narrante. Proprio la presenza di sequenze dialogate e narrative fa sì che il ritmo della storia sia sempre veloce e incalzante.
Il tono usato da Pirandello per il suo romanzo è di tipo colloquiale, anche perché spesso è proprio lo stesso autore che interagisce col lettore; lo stile è chiaro, semplice e scorrevole.

Stile e lessico

La sintassi e il lessico de “Il fu Mattia Pascal” sono funzionali dal punto di vista della narrazione, che segue fedelmente i pensieri, i progetti, i ragionamenti del protagonista, dalla cui mediazione sono tra l'altro mediate le descrizioni di tutti gli altri personaggi. Di conseguenza, l'analisi dello stile è più o meno equivalente a quella del modo di ragionare di Mattia Pascal. Ad esempio possiamo notare che i pensieri di Mattia non sono mai eccessivamente articolati, ma seguono piuttosto la scia di sensazioni, impressioni, ricordi che sopraggiungono senza una logica precisa; del resto anche l'elaborazione di decisioni, quando non segue l'indole impetuosa, risponde ad esigenze pratiche e spesso inaspettate, per cui la risoluzione finale raramente è frutto di una ponderazione complessa e articolata. È proprio quando la meditazione si fa più prolungata, invece, che il protagonista tarda a trovare una via d'uscita.
Al di là di tutto ciò, comunque, bisogna dire che linearità e la sintesi sono caratteristiche intrinseche dello stile di Pirandello, insieme a quella colloquialità che semplifica le stesse riflessioni filosofiche, esemplificate e tradotte in immagini familiari.
In modo analogo, il lessico appare improntato alla quotidianità, pur essendo arricchito da quella coloritura di termini ed espressioni tipiche del parlato, oppure ottenuti con invenzioni talvolta bizzarre o con l'uso di diminutivi e accrescitivi. Questi contributi lessicali permettono allo stile di Pirandello di non essere monotono, e consentono al discorso ora di accelerare, ora di rallentare, ora di distendersi, ora di agitarsi, il tutto sempre in risposta allo stato d'animo del soggetto narrante.

Personaggi

L’opera pirandelliana è caratterizzata da una grande quantità di personaggi (almeno una trentina) tutti differenti tra loro e tutti con una diversa importanza nella vicenda. Se alcuni sono fondamentali, altri potrebbero essere considerati quasi superflui ma servono ugualmente a creare un piccolo e verosimile mondo, fatto di sfaccettature e di personaggi molto eterogenei tra loro, per rappresentare quanto più possibile il reale. Ogni personaggio viene presentato da Mattia in modi diversi ma la descrizione iniziale è minima, spesso senza un accenno di aspetto fisico. Il carattere del personaggio che entra in scena si presenta da sé, indirettamente, attraverso lo sviluppo della vicenda. Dalle sue azioni e dai dialoghi è possibile capire anche il suo modo di pensare. Infine si nota che alla fine della storia l’unico che veramente è cambiato e maturato rispetto alla condizione iniziale è il protagonista Mattia Pascal. Quindi tutti gli altri personaggi a parte lui hanno la funzione di cornice.

Mattia Pascal – Adriano Meis
Il protagonista dell’opera, che attraverso un enorme flash back ci racconta la sua vita singolare, nella quale ha potuto morire formalmente per ben due volte.
Mattia Pascal proviene da una famiglia benestante le cui finanze, però, sono venute a mancare con la morte del padre a causa della cattiva amministrazione del patrimonio da parte di Batta Malagna. Mattia non è particolarmente avvenente: ha un volto placido e stizzoso, è minuto, ha il naso molto piccolo, come il mento, del resto, ed è costretto a portare un paio di occhiali tondi per curare lo strabismo di uno dei suoi occhi; ma era pieno di salute, e questo gli bastava.  Si preoccupa del proprio aspetto solo durante la trasformazione Mattia-Adriano, per un fine preciso .Con l’operazione all’occhio capisce di amare di più sé stesso.
Tra il protagonista della vicenda e la madre c'è un ottimo rapporto di stima, rispetto e tenerezza. Tra Mattia e Roberto, il fratello, il rapporto è più di complicità.
Romilda, la moglie, non sembra essere molto importante per lui e l’unico suo grande amore è sicuramente Adriana, che con la sua dolcezza ha saputo conquistarlo in un momento di trasformazione morale.
Mattia, insieme al fratello Roberto è cresciuto senza preoccupazioni ed anche nelle situazioni più difficili assume un atteggiamento tranquillo e sarcastico. Si preoccupa della sua libertà, di avere meno problemi possibile e di divertirsi, almeno da giovane. La prima svolta che cerca di dare una svolta alla sua vita è il matrimonio con Romilda. Col matrimonio e la difficile condizione in casa inizia a sentirsi troppo legato alle cose materiali, ai soldi che non bastano mai e cerca una via di fuga, un ritorno alla vita semplice e divertente che ha potuto fare da piccolo.
Scappa all’insaputa di tutti a Montecarlo, per fuggire dai propri problemi e per stare da solo.
Alla roulette il destino e la fortuna gli offrono molti soldi che, insieme alla notizia incredibile della propria morte gli offrono l’occasione di abbandonare una vita fatta di problemi e di iniziarne una nuova, perfetta. Così diventa Adriano Meis, ma durante i suoi lunghi viaggi scopre quanto sia insignificante una vita senza legami, senza responsabilità ed affetti. Tutto questo lo spinge a tornare Mattia, ma ormai è troppo tardi. La sua scomparsa ha permesso alla famiglia ed alla moglie di sostituirlo, creando una nuova e sconosciuta armonia. Con la sua esperienza è maturato, cresciuto ed ha scoperto gli ideali a cui fare riferimento nella vita, ma non può avere una seconda possibilità. Ad un uomo come lui, vittima del destino e della sua volontà di cambiarlo, non rimane altro da fare se non commiserarsi davanti alla propria tomba, la tomba del fu Mattia Pascal.

La madre di Mattia Pascal
Mattia Pascal ha una vera e propria devozione nei riguardi della sua santa (cap. III) madre, il rapporto fra i due è di tenerezza e stima.
È molto pacata, placida, quasi infantile. Ha una voce e una risata nasale che sembra la faccia vergognare. È molto gracile e spesso malata dopo la morte del marito, anche se non si lamenta mai dei propri mali. Ciò che probabilmente più la preoccupa è la sorte dei due figli, rimasti praticamente senza nulla dopo la morte del padre e dopo che la stessa signora Pascal aveva lasciato tutte le sue ricchezze e proprietà sotto l'amministrazione di Batta Malagna, poiché inetta a questo genere di faccende: non è capace di gestire da sola la grande ricchezza lasciata dal marito e lascia l’intera amministrazione dei suoi affari e delle sue proprietà al Malagna. Non accorgendosi degli imbrogli fatti alle sue spalle può solo facilitare la sua rovina.
Quando Mattia si sposa con Romilda non riesce a sopportare la vicinanza della violenta e bisbetica vedova Pescatore e finisce con il diventarne una vittima. Fugge di casa con la sorella ma la morte la colpisce dopo poco, a causa degli affanni e dei feroci litigi subiti in precedenza.

Roberto Pascal
È il fratello maggiore di due anni di Mattia Pascal. Viene presentato inizialmente, quando il protagonista parla della sua infanzia. I due hanno un ottimo rapporto di complicità, soprattutto durante l'infanzia e la prima giovinezza. Sono due amici e insieme a Mino Gerolamo formano un gruppo inseparabile.
Berto, questo è il suo soprannome, al contrario di Mattia, è bello di volto e di corpo (cap. III), molto vanitoso e curato nell'aspetto. Da adolescente non combina tutti i guai sentimentali del fratello e lo ritroviamo verso la fine della vicenda un uomo maturo, serio ed abbastanza fortunato, capace di compensare il dissesto  finanziario subito in gioventù: Grazie alla sua avvenenza riesce a contrarre un matrimonio felice con una giovane più ricca di lui e vive con lei e la famiglia di questa ad Oneglia.

Zia Scolastica
È la sorella del padre di Mattia, è completamente differente dalla sorella e Mattia se ne accorge fin da piccolo. Aveva molta più paura di lei che dei leggeri rimproveri della madre. Spesso apre gli occhi alla sorella su ciò che avviene attorno al lei ed è l’unica donna capace di vincere una lite contro la vedova Pescatore, perché ha un carattere ancora più forte e duro di lei e sicuramente più saggio.
Scolastica nutre davvero un grande rancore nei confronti dell'amministratore del patrimonio del fratello e vede come unica soluzione dello scempio che compie Malagna un nuovo matrimonio della cognata, semmai con Gerolamo Pomino, un suo vecchio corteggiatore. La madre di Mattia rifiuta però la proposta, Zia Scolastica così la accoglie nella sua casa per sottrarla alle angherie della consuocera e della nuora, e fa lo stesso col nipote Mattia tornato a Miragno dopo che per anni tutti lo credevano morto.

Batta Malagna
Il disonesto amministratore delle ricchezze della famiglia di Mattia. Approfittando della ingenuità e buona fede della moglie del defunto Pascal, riesce ed agire indisturbato ed a diventare a poco a poco molto ricco. Non ha rispetto per l’amico defunto e la sua famiglia, non si fa scrupoli a dirigere la sua attività in modo sbagliato, costringendo i Pascal a vendere una dopo l’altra tutte le loro proprietà, per poi acquistarle ad un prezzo stracciato e goderne i frutti. Mattia, cresciuto nella spensieratezza totale a causa della madre non se ne preoccupa e non si meraviglia una volta arrivata la povertà.
Aveva un viso lungo incorniciato da baffi melensi e pizzo; il pancione era languido (cap. I) che sembrava arrivasse fino a terra, le gambe corte e tozze: insomma, secondo Mattia, aveva il volto e il corpo che più non si addicevano ad un ladro come Malagna.
Questo personaggio sembra punito dal destino per le sue azioni disoneste: è continuamente afflitto perché non riesce ad avere un figlio. Anche in famiglia non si comporta in maniera corretta. La sua prima moglie era malata e non poteva bere vino a mangiare i cibi più gustosi. Ma lui non si cura di questo ed a tavola sembra provocarla, mangiando e bevendo con gusto ed in modo plateale ciò che per la moglie lì presente è veleno.
Si inserisce negativamente anche nella vita sentimentale di Mattia, come se averlo rovinato economicamente non fosse stato abbastanza. Una volta morta la prima moglie decide di sposarsi con la bella Oliva, rovinando il primo amore di Mattia. Infatti i due ragazzi si amavano e da lui Oliva aspettava un bambino. Ciò nonostante Malagna decide di accettare quel figlio di Mattia come suo. Così finalmente potrà diventare padre. Mattia su questo fatto ironizza arrivando a definire Malagna in un certo senso onesto. In fondo tutte le ricchezze accumulate da quell’amministratore a forza di rubare e truffare i Pascal sarebbero un giorno passate a suo figlio, così tutto sarebbe stato restituito. Mattia ama scherzare in questo modo sarcastico e pungente.

Marianna Dondi – vedova Pescatore
Madre di Romilda e cugina di Batta Malagna, è una vera strega secondo Mattia Pascal, cui cerca di impedire di mantenere una relazione con la figlia poiché lo ritiene uno sfaccendato e inetto. Nonostante preferisca la "candidatura" di Batta Malagna come marito della figlia, si arrende alla scelta di questa di sposare Mattia. Tuttavia non accetta la sua misera condizione di vita dovuta al matrimonio della figlia con Mattia, ormai poverissimo. Quindi fa di tutto per vendicarsi e, da brava suocera, è la causa principale dei litigi in casa Pascal, spesso troppo violenti. Il suo personaggio esprime sicuramente antipatia ed è divertente vedere il comportamento di Mattia nei suoi confronti, quanto poco venga considerata e rispettata.

Romilda Pescatori
È la figlia di Marianna Dondi; appare molto cortese e gentile nei confronti di Mattia quando si incontrano per la prima volta nella casa dove lei vive con la madre. Mattia Pascal si innamora subito di quegli occhi belli, di quel nasino, di quella bocca (cap. IV). Romilda, durante un incontro con il protagonista del romanzo giunge persino a pregarlo di fuggire con lei per potersi liberare della oppressiva presenza della madre. Il matrimonio tra i due viene imposto e nasce quasi per gioco. Infatti Mattia si era avvicinato a lei solo per conto dell’amico Pomino e per toglierla dalle grinfie del Malagna.
Ma presto l'atteggiamento della giovane cambia radicalmente: rimasta incinta di Mattia vuole che la paternità del figlio sia attribuita all'arricchito cugino della madre, Batta Malagna, ma quando quest'ultimo decide di tornare da Oliva, la moglie, rimasta a sua volta incinta (di Mattia), Romilda accetta di sposarsi con Pascal. I nove mesi della gravidanza sono vissuti dalla giovane in una maniera tremenda e riversa la sua sofferenza sul marito che stenta a sopportarla.
Soffre della condizione in casa Pascal, dei continui litigi e non può fare a meno di seguire le scelte della madre. E’ di carattere debole e tutto ciò si trasmette alla sua salute: perde la bellezza giovanile e i due figli che mette al mondo, essendo troppo gracili per sopravvivere, muoiono entrambi.
Quando Mattia Pascal torna a Miragno dopo anni di assenza, Romilda si è risposata con Mino Pomino e i due hanno avuto una bambina la cui purezza e innocenza convincono lo stesso Pascal a non fare rivendicazioni a proposito della madre.
Alla vista di Mattia sviene per l’emozione. Sembra trovarsi davvero bene col nuovo e ricco marito: è tornata  ad essere la bella Romilda di gioventù ed il figlio di Pomino è nato sano e sta benissimo.

Adriana Paleari
È la figlia di Anselmo Paleari, proprietario della pensione di via Ripetta a Roma dove Mattia Pascal, sotto l'identità di Adriano Meis, alloggia durante il suo soggiorno nella capitale.
Quando il protagonista del romanzo vede per la prima volta Adriana ella gli appare tutta confusa, una signorinetta piccola piccola, bionda, pallida, dagli occhi cerulei, dolci, mesti, come tutto il volto (cap. X) e gli appare anche molto giovane. Veste di nero a causa della recente morte della sorella maggiore.
E’ una ragazza pura, gentile, educatissima, tenera e discreta ma allo stesso tempo è responsabile di sé stessa e di tutta la famiglia.
Adriana è molto religiosa: detesta la passione del padre Anselmo per ciò che è occulto e le sedute spiritiche cui partecipa soventemente; è sempre molto pacata e tranquilla in ogni occasione; solamente una volta durante il romanzo ha una reazione violenta, quando Mattia Pascal-Adriano Meis, scoperto il furto del denaro commesso dal cognato della stessa Adriana, le confessa di non voler denunciare il fatto. La reazione, così insolita per il suo carattere, è dovuta al fatto che Terenzio Papiano la vuole sposare per ottenere il denaro della sua dote, e il furto che questi compie ai danni di Mattia-Adriano sarebbe la maniera migliore per  sbarazzarsi definitivamente dell'avido cognato.

Anselmo Paleari
Padre di Adriana, è il sessantenne proprietario della pensione di via Ripetta a Roma.
Quando Mattia lo incontra per la prima volta, nota il suo torso nudo roseo, ciccioso, senza un pelo (cap. X).
Paleari, agli occhi dello stesso protagonista del romanzo è un uomo completamente estraneo rispetto alla realtà che lo circonda a causa delle sue noiose riflessioni che espone continuamente al povero Pascal-Meis. Ormai non può più lavorare e tutta la sua vita è dedicata alla lettura, alla filosofia ed alle riflessioni sul suo tema preferito: l’occulto. L'occulto è l'argomento che più interessa ad Anselmo, che organizza spesso sedute  spiritiche con lo scopo di richiamare le anime dei morti.

Terenzio Papiano
Era il marito della sorella di Adriana, morta senza avere avuto figli.
È un uomo sui quarant'anni, con occhi grigi, acuti e irrequieti (cap. XII) calvo, alto, robusto e con evidenti baffi brizzolati.
Papiano non ha scrupoli: dovendo restituire ad Anselmo Paleari la dote della moglie morta, cerca piuttosto di indurre Adriana a sposarlo in modo di non dover più consegnare al padre il denaro che gli doveva, e sfrutta l'aiuto di Silvia Caporale, un'altra ospite della pensione rimasta impoverita dopo avere affidato ogni suo avere allo stesso Papiano. Notando però l'interesse di Pascal-Meis per la giovane che ha preso di mira, Terenzio cerca di avvicinarlo a Pepita Pantogada, nipote del Marchese di Auletta presso cui lo stesso Papiano lavora come segretario, ma non riesce nel suo intento. Papiano, allora, con l'aiuto del fratello, sottrae a Mattia-Adriano una forte somma di denaro (dodicimila lire )come ricompensa del suo interessamento per Adriana.

La signorina caporale
Un personaggio minore, inquilina nella casa Paleari. E’ una donna brutta e zitella, che si consola con l’alcool della propria misera condizione. Ha avuto una volgare relazione con Terenzio ma è stata solo usata. E’ lei che suggerisce ad Adriano l’operazione all’occhio e nei suoi confronti diventa sempre più curiosa ed invadente. La compagnia e le chiacchierate con il curioso coinquilino la fanno innamorare ma il suo sentimento non verrà mai contraccambiato. Ha una grande complicità con Adriana, ma spesso finisce solo con fare arrabbiare o mettere in imbarazzo la giovane ragazza.

Pinzone
E’ il mediocre insegnante di Mattia e Roberto, capace solo di insegnamenti noiosi ed inutili. Spesso è complice dei due vispi ragazzi e li fa divertire invece di eseguire il suo dovere in cambio di un po’ di vino. E’ un personaggio buffo e subisce anche gli scherzi dei due bambini se li tradisce raccontando alla loro mamma le loro birbanterie.
E’ un personaggio di seconda importanza, con un carattere mediocre se paragonato a quello del protagonista. Amico di Mattia, appare per la prima volta nell’opera durante la gioventù del Pascal. Non ha problemi economici e nel paese ha diverse proprietà lasciate dal padre. Si innamora di Romilda e chiede al giovane Pascal di aiutarlo a conquistarla, vista la sua timidezza ed il carattere debole. Rimane deluso ed offeso quando capisce che l’amico, a forza di andare a trovare la ragazza se ne è innamorato, ma anche in seguito non dimostra mai apertamente il suo disprezzo. Anzi, è disposto ad aiutare Mattia quando cerca lavoro, gli offre del denaro ed è lui a trovargli il posto di bibliotecario. I n fondo è di indole buona ma risulta vittima degli altri, incapace di reagire.
Quando Mattia è creduto morto da tutto il paese di Miragno si sposa con la vedova Pascal e questo atteggiamento è visto da Mattia quasi un tradimento, soprattutto della moglie “vendutasi” a lui perché ricco, anche se in gioventù l’aveva disprezzato. La critica di Mattia fa nascere il dubbio Che Pomino non sia amata da Romilda, ma solo sfruttato per ottenere una vita agiata.
Alla vista di Mattia non sa proprio come reagire, non riuscendo a trovare una soluzione per evitare l’annullamento del suo matrimonio. E’ sollevato quando capisce che Mattia non vuole intromettersi nella sua nuova famiglia  ma la sua felicità e la stabilità della sua condizione non è dovuta alle sue azioni: è una conseguenza delle scelte coraggiose di Mattia.

I temi

"Il fu Mattia Pascal" presenta moltissime tematiche che possono essere oggetto di discussione ancora oggi dopo quasi un secolo dalla sua stesura.
La maschera
_E' estremizzato il bisogno dell'uomo di darsi una maschera per vivere in società, forma che oltre ad essere, secondo l'autore, necessaria è anche difficilmente sostituibile dato che l'individuo, o meglio la sua maschera, dal momento in cui nasce vanno a far parte di un gran meccanismo che non può rompersi e per questo, ognuno è costretto a recitare la sua parte senza neanche chiedersi il perché. Se in quest'immenso gioco si prova a “bluffare”, si è destinati a fallire e nel migliore dei casi bisogna tornare ad essere una delle tante pedine; l'unico modo per estraniarsene è non essere più utili per il proseguimento della partita, in altre parole o morire o impazzire, le sole condizioni in cui ci si può, forse, considerare liberi.
La maschera, così come l'appartenere ad un gruppo, il calarsi in una trappola è inteso come necessario perché l'uomo come singolo non ha alcun valore se non per se stesso, e nessuna possibilità di essere veramente libero di decidere arbitrariamente o quasi della propria esistenza.
La realtà è concepita unicamente come una formalità: non è tanto importante che una cosa sia vera ma basta che possa esserlo e si sfrutta ciò finché qualcuno non dimostra l'opposto; ad esempio nel racconto, a nessuno importa se Mattia sia morto veramente, l'importante è che lui non torni (potrebbe anche essere morto davvero o no è uguale!) in modo che il nuovo matrimonio di Romilda non desti scandali, e quando lui torna, nessuno si meraviglia perché a questo punto che lui sia morto davvero o no non è più importante, dato che ha deciso di non riprendersi la moglie. Adesso potrebbe anche morire veramente che sicuramente nessuno lo farebbe scrivere su un giornale dato che tutte le apparenze sono salve ed il grande mosaico della vita sociale non subirebbe contraccolpi. 

L’identità e la morte
La prima frase : ”Una delle poche cose, anzi forse la sola che io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal” e l'ultima: “Io sono il fu Mattia Pascal” del romanzo affrontano il tema dell'identità, molto presente all'interno di tutta la narrazione, durante la quale vengono prese in esame via via altre tematiche; tra queste la morte (dopo la mia terzaultima e definitiva morte) che non solo riguarda quella molteplice di Mattia Pascal, ma anche quella del padre, della madre e delle figlie dello stesso protagonista, ma anche quella del pallidissimo giovane suicidatosi dopo avere perso tutto ciò che aveva al Casinò di Montecarlo. La morte pone fine ad inutili vite in cui ognuno si affatica a raggiungere obiettivi tutto sommato inutili e per i quali lo ricorderanno a malapena i suoi cari, se mai ne ha avuti.

L’amore
Anche l'amore è visto come sentimento assurdo, infatti, Mattia non comprende a cosa sia dovuto e a quale scopo Pomino abbia per Romilda un tale sentimento, ed anche il suo rapporto con Adriana, è vissuto dal protagonista in chiave molto egoistica e personale. 

Il gioco e la fortuna
Il gioco (Non seppi, o meglio, non potei arrestarmi a tempo) è un altro dei temi del romanzo che va associato anche quello della fortuna (Non ebbi più né modo né tempo di stupirmi allora del favore, più favoloso che straordinario, della fortuna). 

La solitudine
Altra importante tematica del romanzo è la solitudine (mi trovai qui solo, mangiato dalla noia). Due difetti, uno fisico e uno di carattere più manuale, amministrativo, che Mattia Pascal pone molto spesso in rilievo sono il suo strabismo (un occhio, il quale, non so perché, tendeva a guardare per conto suo, altrove) e la sua incapacità (ero inetto a tutto). È proprio il suo occhio strabico che gli permette di seguire, come uno spettatore, il suo "lasciarsi vivere"; questo difetto fisico, dopo un'operazione, viene eliminato a Roma, e proprio da quel momento, Pascal, riesce a mettere un po' di ordine nella sua esistenza iniziando a chiarire la realtà della vita che lo circonda, dato che, non ne è più uno spettatore, eliminato l'occhio strabico. Altra caratteristica di Mattia Pascal è il suo continuo peregrinare (seguitai ancora per qualche tempo a viaggiare), egli viaggia per sfuggire da una realtà che non gli appare bene definita, chiara, e quindi lo spaventa.

Il messaggio dell’autore

Pirandello con la sua opera ha cercato di ottenere qualcosa di assolutamente nuovo e di difficile realizzazione. In fondo, visti i dialoghi e le riflessioni presenti nell’opera, l’autore è sia un filosofo che un comico allo stesso tempo e da questa strana fusione nasce qualcosa di unico.
La voluta assenza di descrizioni temporali e spaziali permette di concentrare la visione del lettore proprio su una vicenda caratterizzata da un ritmo continuo, da prendere come esempio e lezione di vita. La storia di Mattia è completamente basata su un fatto incredibile, ma non impossibile.
E qui sta il succo della novità pirandelliana: gli eventi narrati possono sembrare addirittura eccezionali ed impossibili ma non lo sono. Fatti e personaggi non sono opera di un'invenzione, basata sulla fantasia dell’autore, ma rappresentano la realtà più strana ed inaspettata. Pirandello realizza un mondo non irreale e nemmeno reale, visto che in fondo è sempre una opera scritta. La sua vicenda, i  fatti, i dialoghi ed i personaggi sono perciò verosimili, capaci di diventare una realtà.
Nella prima premessa alla vicenda Pirandello inserisce una critica contro Copernico, che con la sua scoperta ha sconvolto il modo di pensare dell’uomo. La terra non è al centro dell’universo e gli uomini solo una infinitesimale parte di esso. Perciò ogni gloria o sopravvalutazione risulta vana.
La storia di Mattia ha anche un importante e pessimistico retroscena: in soli due anni tutti gli abitanti di Miragno lo dimenticano, la famiglia non sembra disperarsi della sua morte e la moglie si risposa sostituendolo con uomo più ricco. Anche se la sua morte è stata una finta, Mattia ha perso tutto e non può sperare di riottenerlo. La nostra società dimentica presto, sostituisce chi è scomparso e va avanti.
L’opera di Pirandello può essere considerata una lunga favola che attraverso una storia, una moltitudine di personaggi vuole trasmettere al lettore una morale. L’uomo non può lottare contro la propria sorte, anche se tristemente avversa e nemmeno crearsela con le proprie mani come fa Mattia Pascal diventando Adriano Meis. Siamo tutti delle marionette con una maschera, pronti ad adattarci alla varietà enorme di situazioni che ci coinvolgono.

L'arte che scompone: la poetica dell'umorismo


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Pirandello è il più grande autore di teatro del Novecento italiano:per la conspevolezza della crisi d'identità dell'uomo nella società moderna e per la novità della sua opera che sconvolge le tradizionali tecniche espressive del teatro.Ma la sua estraneità ai clamori avanguardistici e dannunziani del primo Novecento italiano gli consentì di raggiungere la fama solo molto tardi, quando la crisi del dopoguerra fece maturare le condizioni perchè il suo messaggio potesse essere compreso.
Fin dalla sua prima produzione narrativa emerge la tematica che , via via approfondita,caratterizza tutta la sua opera e al contempo esprime la sua visione del mondo:il sentimento della condizione tragica dell'uomo condannato alla sconfitta per l'impossibilità di comunicare con gli altri e di conoscere se stesso.A ribadire e spiegare questa condizione disperata si aggiungono: il sentmento del contrasto tra illusione e realtà, poichè l'uomo è obbligato ad assumere una forma per esisterela quale però si rivela illusoria rispetto al continuo fluire della vita; il sentimento della casualità della vita , che si svolge in un mondo privo di valori e di certezze governato da un'assoluta relatività.
I personaggi di P., infatti sono quasi sempre dei piccoli borghesi dalla vita meschina, soffocati dalle convenzioni sociali, alle quali si adattano con passiva inconsapevolezza.Ma talvolta , rivelando una insospettabile voglia di vivere , essi prendono coscienza e reagiscono mediante gesti apparentemente bizzarri, che però non trovano sbocco se non nella valvola liberatrice della pazzia o nella rassegnazione dolente e consapevole.

In occasione di un concorso a professore ordinario, scrive un saggio,L'umorismo (1908) che compendia la Sua  poetica.
L'umorismo rappresenta la chiave di accesso di tutto il sistema letterario pírandelliano. La prima parte, pur maggiormente legata all'occasione accademica, è fondamentale per il suo tentativo di saldare la poetica pirandelliana, espressa nella seconda parte, anzitutto a un'interpretazione storico-letteraria e critica, e poi a un'estetica che è frutto di un'epistemologia connessa a un nuovo modello antropologico (basato sulle antinomie, sulla compresenza degli opposti). Sviluppando il primo collegamento, Pirandello individuava una linea misconosciuta della tradizione letteraria, poi studiata da Michail Bachtin. Svolgendo il secondo, egli percorreva un cammino parallelo a quello di Henri Bergson e Sigmund Freud (che, a inizio secolo, avevano anch'essi dedicato studi, con forti valenze estetiche ed epistemologiche, al riso e al comico) e anticipava la bi-logica dell'epistemologia a sfondo psicoanalitico di Ignacio Matte Blanco.
Pirandello definisce “comico” l'”avvertimento tdel contrario”:l'avvertimento della dissonanza tra la sostanza e le forme provoca il riso.Ma se riusciamo a passare dall'avvertimento al” sentimento del contrario”, se riusciamo cioè a riflettere oltre l'apparenza per guardae nell'interiorità dell'uomo allora il riso si trasforma in pianto.Celebre è l'esempio della vecchia signora”goffamente imbellettata e parata di abiti giovanili” che muove il riso del lettore, il quale avverte in lei il contrariodi come si doverebbe acconciare una vecchia signora.Ma se egli riflette sul perchè ella inganni così impietosamente se stessa, nel tentativo magari di trattenere un marito più giovane di lei,ecco che perverrà al “sentimento del contrario”ed il riso cederà il posto alla pietà.

La vicenda pirandelliana di Marta Ajala



Dopo la laurea filologica a Bonn, Pirandello visse a Roma fin dal 1892, e qui, nel 1901, pubblicava, tra il giugno e l’agosto, il romanzo L’esclusa sulle colonne de “La Tribuna” (il romanzo  verrà poi edito in volume nel 1908).

Attrici o semplici madri, mogli o amanti… le donne in Pirandello sono comunque portatrici per eccellenza del marchio della dissonanza fra quello che appare nella quotidianità sociale e quello che la persona vive interiormente. Costretta in ruoli sempre troppo restrittivi, combattuta fra diverse tensioni e desideri di segno opposto, umiliata dalle convenzioni sociali, sacrificata a portare senza fine una maschera che s’identifica con il suo stesso destino, la donna appare, nei testi dello scrittore siciliano, ostinatamente tesa a incontrare quell’altra, quella sconosciuta a sé e alla società, che in fondo è lei stessa.La menzogna, il sospetto, l’interiorità sono gli ingredienti che fanno vacillare un’esistenza.La realtà è uno specchio che si rompe in mille pezzi e smette di riflettere una sagoma unica; una situazione oggettiva e verosimile.
La vicenda della pirandelliana Marta Ajala sfiora un tema che nei primi anni del Novecento è al centro del dibattito critico: il valore dello studio per l’autodeterminazione di ogni persona, uomo o donna.Quando Marta decide di riscattarsi e di affermare la sua dignità, si chiude in una stanza a studiare, sfidando i malumori della made e della sorella, che in un primo momento interpretano il suo isolamento con sospetto.Marta pratica , con l’ostinazione della pioniera, quella prospettiva che negli stessi anni veniva proposta come ineludibile della vicenda di Lina, la protagonista del primo romanzo femminista italiano, Una vita di Sibilla Aleramo.
(…) Era chiaro! Marta Ajala avrebbe occupato il posto di maestra supplente nelle prime classi preparatorie del Collegio, solo perché “protetta” del deputato Alvignani.
E vi fu, nei primi giorni, una processione di padri di famiglia al Collegio: volevano parlare col Direttore. Ah, era uno scandalo! Le loro ragazze si sarebbero rifiutate d’andare a scuola. E ne
ssun padre, in coscienza, avrebbe saputo costringerle. Bisognava trovare, a ogni costo e subito, un rimedio. Il vecchio Direttore rimandava i padri di famiglia all’Ispettore scolastico, dopo aver difeso la futura supplente con la prova degli ottimi esami. Se qualche altra avesse fatto meglio, sarebbe stata presa a supplire in quella classe aggiunta. Nessuna ingiustizia, nessuna particolarità…
- Ma sì! -. Il cavalier Claudio Torchiara, ispettore scolastico, era del paese e amico intimo di Gregorio Alvignani. A lui i reclami si ritorcevano sotto altra forma e sotto altro aspetto. Voleva l’Alvignani rendersi impopolare con quella protezione scandalosa? E invano il Torchiara s’affannava a protestare che l’Alvignani non centrava né punto né poco, che quella della maestra Ajala non era nomina governativa. Eh via, adesso! Che sostenesse ciò il Direttore del Collegio, TRANSEAT!, ma lui, il Torchiara, ch’era del paese; eh via! Bisognava aver perduto la memoria degli scandali più recenti… Era venuta dunque così dall’aria quella nomina dellAjala? E in coscienza se il Torchiara avesse avuto una figliuola, sarebbe stato contento di mandarla a scuola da una donna che aveva fatto parlare così male di sé? Che fior di maestra per le ragazze!

(…) Ricominciò la guerra fin dal primo giimages2orno di scuola.
Già le altre maestre del Collegio, oneste e brutte zitellone, se la recarono subito a dispetto. Gesù, Gesù! un breve saluto, la mattina, con le labbra strette, e via; un freddo, lieve cenno del capo, ed era anche troppo! Un’onta per la classe delle insegnanti! Un’onta per l’Istituto! Il mondo, sì, intrigo: per riuscire, mani e piedi! ma onestamente, oh! anzi, onoratamente. E, sotto sotto, commentavano con acre malignità il modo con cui il Direttore e gli altri professori del Collegio fin dal primo giorno si erano messi a trattare l’Ajala; e rimpiangevano quella cara maestra Flori che non avrebbero più riveduta. La Flori: che pena! Riusciti vani i nuovi e più aspri reclami delle  famiglie, le ragazze (assentatesi per alcuni giorni dalla scuola all’annunzio della nomina di Marta) cominciarono man mano a ripigliare le lezioni; ma cattive, astiose, messe su evidentemente dai genitori contro la nuova maestra. A nulla giovò l’affabilità con cui Marta le accolse per disarmarle fin da principio; a nulla la prudenza e la longanimità. Si sottraevano sgarbatamente alle carezze, si mostravano sorde ai benevoli ammonimenti, scrollavano le spalle a qualche rara minaccia; e le più cattive, nell’ora della ricreazione in giardino, sparlavano di lei in modo da farsi sentire o, per farle dispetto, accorrevano ad attorniare le antiche maestre e a carezzarle, piene di moine e di premure, lasciando lei sola a passeggiare in disparte.
Ritornando a casa, dopo sei ore di pena, Marta doveva fare uno sforzo violento su se stessa per nascondere alla madre e alla sorella il suo animo esasperato. Ma un giorno, ritornando più presto dal Collegio, accesa in volto, vibrante d’ira contenuta a stento, appena la madre e Anna Veronica le domandarono che le fosse avvenuto, ella, ancora col cappellino in capo, scoppiò in un pianto convulso.
Esaurita finalmente la pazienza, vedendo che con le buone maniere non riusciva a nulla, per consiglio del Direttore s’era messa a malincuore a trattare con un po’ di severità le alunne. Da una settimana usava prudenza con una di esse, ch’era appunto la figlia del consigliere Breganze, una magrolina bionda, stizzosa, tutta nervi, la quale, messa su dalle compagne, era giunta finanche a dirle forte qualche impertinenza. – E io ho finto di non udire… Ma quest’oggi alla fine, poco prima che terminasse la lezione, non ho saputo più tollerarla. La sgrido. Lei mi risponde, ridendo e guardandomi con insolenza. Bisognava sentirla! “Esca fuori!” “Non voglio uscire!” “Ah! no!”
Scendo dalla cattedra per scacciarla dalla classe: ma lei s’aggrappa alla panca e mi grida: “Non mi tocchi! Non voglio le sue mani addosso!”. “Non le vuoi? Via, allora, via! esci fuori!” e fo per strapparla dalla panca. Lei allora si mette a strillare, a pestare i piedi, a contorcersi. Tutte le ragazze si levano dalle panche e le vengono intorno; lei, minacciandomi, esce dalla classe, seguita dalle compagne. E’ andata dal Direttore. Questi non mi dà torto in loro presenza; rimasti soli, mi dice che io avevo un po’ ecceduto; che non si debbono, dice, alzar le mani su le allieve… Io, le mani? Se non l’ho toccata! Alla fine però accetta le mie ragioni… Ma Dio, Dio; come andare avanti così? Io non ne posso più! Il giorno appresso, intanto, il padre della ragazza, il consigliere cavaliere ufficiale Ippolito Onorio Breganze, andò a fare una scenata nel gabinetto del Direttore. Era furibondo. L’obesità del corpo veramente non gli permetteva di gestire come avrebbe voluto. Corto di braccia, corto di gambe, portava la pancetta globulenta in qua e in là per la stanza, faticosamente, facendo strillare le suole delle scarpe a ogni passo. Alzare le mani in faccia alla sua figliuola? Neanco Dio, neanco Dio doveva permetterselo!
Lui, ch’era il padre, non aveva mai osato far tanto! Si era forse tornati ai beati tempi dei gesuiti, quando s’insegnava a colpi di ferula su la palma della mano o sul di dietro? Voleva pronta e ampia soddisfazione! Ah sì, perrrdio! Se la signora Ajala aveva valide protezioni e preziose amicizie, lui, il consiglierrr Breganze, avrebbe reclamato riparazione e giustizia più in alto, più in alto (e si sforzava invano di sollevare il braccino) – sissignore, più in alto! a nome della Morale offesa non solo dell’Istituto, ma dell’intero paese.
E DRI DRI DRI – strillavano le scarpe.” (…Da L’Esclusa di Pirandello
Si tratta di una prima espressione letteraria, non ancora pienamente matura, nella quale l’influenza della prosa naturalista, sulla base di modelli costituiti da Giovanni Verga, o da un autore vicino al Pirandello come Luigi Capuana, si manifesta in un tono cronachistico, talora freddo e distaccato, rispetto ad una vicenda che, invece, presenta già i caratteri dei più maturi intrecci pirandelliani.
Il romanzo appare diviso in due sezioni, ciascuna delle quali segmentata, rispettivamente in 14 e in 15 macrosequenze narrative. La figura di Marta Ajala campeggia con evidenza all’interno di una struttura narrativa, che non manca  di lasciare spazio ad altri personaggi e ad una cornice socio-economica ed ambientale definita con assoluta precisione. Il richiamo ad alcuni episodi del romanzo,  servirà a tratteggiare meglio il contesto in cui si matura il dramma della protagonista.
Tale dramma, seguito dall’autore nell’attenta articolazione del dato psicologico, è reso possibile, alimentato ed infine  esasperato dai ciechi pregiudizi di una cultura e di un ambiente, che Pirandello ritiene  doveroso studiare e rappresentare in tutte le sue manifestazioni. Non solo : il dramma di Marta è anche il dramma di altri personaggi, i quali si trovano ad essere vittime e produttori al tempo stesso di alienazione e sciocca autodistruttività. Se Marta è “l’esclusa” per eccellenza,  chi fomenta acredine , spirito di rivalsa, chi giudica senza conoscere, chi rifiuta il confronto e la comunicazione si autoesclude da ogni forma di libertà e di felicità, si annienta scioccamente.
IL gioco di una vita si disperde in molteplici frammenti. La realtà appare un caleidoscopio che rifrange ogni volta una sua forma eventuale.
esclusa1
la vicenda di Marta Ajala ci dà modo di cogliere alcune problematiche relative alla famiglia ed alla società della Sicilia dell’Ottocento con  le sue tipiche connotazioni ( chiusura del nucleo familiare di fronte alla comunità, obbedienza a pregiudizi, mancata solidarietà dei congiunti verso chi è vittima di un malinteso senso dell’onore, difficile identificazione e riconoscimento della figura femminile in ruoli socialmente utili ).Sotto tale punto di vista “L’esclusa ” parrebbe essere un romanzo tipicamente verista, centrato attorno all’esame di un “documento umano” esemplare di un contesto sociale ben delimitato. Del resto il romanzo , se ben analizzato, astrae  da tali  rigide determinazioni e si apre ad una più larga possibile linea interpretativa.
Esso ci illumina sulle ragioni più intime che creano contraddizioni insanabili all’interno del legame di coppia generalmente inteso, con una chiara critica all’istituto famigliare nel suo complesso, come sede alienata dei rapporti umani. Anche se l’analisi appare ancora  fortemente condizionata da precisi fattori culturali e storici ( la Sicilia di fine secolo ) si intravede  infatti, implicitamente tra le righe del romazo, una problematica più vasta tipica delle opere mature.
Lo scenario è quello della provincia siciliana: Rocco scaccia la moglie Marta, credendo che ella abbia una relazione con Gregorio Alvignani, intellettuale e parlamentare locale. In realtà non esiste alcun rapporto tra i due, salvo alcune appassionate lettere dell’Alvignani alla donna. Anche Francesco Ajala, padre di Marta, crede la figlia colpevole e, per il dolore, si lascia morire, autorecludendosi in casa e mandando in rovina i propri affari. Dopo aver tentato di procacciare da vivere in paese, a se stessa e alla madre, Marta accetta un incarico di maestra a Palermo: pirand2nella grande città, la giovane e bella protagonista è fatta oggetto della corte e delle attenzioni dei colleghi, ed il suo cuore risvegliatosi all’amore cede ora agli approcci dell’Alvignani, cui non aveva ceduto prima. Il marito Rocco, intanto, convintosi dell’innocenza della moglie, vuole richiamarla presso di sé, e trova proprio nell’Alvignani un imprevisto alleato. Inizia a manifestarsi il gusto pirandelliano per vicende in cui il caso domina l’esistenza dei personaggi, secondo inattesi e paradossali intrecci. Marta non può ora fare a meno di confessare al marito che, seppur prima innocente, ora ella ha davvero ceduto alla corte dell’Alvignani: ma Rocco, in una scena grottesca, in occasione dei funerali della propria madre, pur provando disprezzo per la moglie non può ora scacciarla nuovamente, e si rassegna a vivere con lei.
L’efficacia della trama e delle varie situazioni, che rapidamente si susseguono in virtù della prosa asciutta del narratore, giova a disegnare un quadro della società siciliana negli ultimi anni del secolo XIX, e lascia già intravedere quelli che saranno i temi fondamentali anche nella produzione drammaturgica.
il dramma di Marta è anche il dramma di altri personaggi, i quali si trovano ad essere vittime e produttori al tempo stesso di alienazione e sciocca autodistruttività,schiavi di pregiudizi e privi di   qualsiasi ottica critica – Se Marta è “l’esclusa” per eccellenza, chi fomenta acredine , spirito di rivalsa, chi giudica senza conoscere, chi rifiuta il confronto e la comunicazione si autoesclude da ogni forma di libertà e di felicità, si annienta scioccamente,insomma anche gli ”Inclusi” vivono una condizione assurda forse peggiore di Marta che invece è colei che è fuori dalla norma..anormale…per Pirandello la norma non è un qualcosa di positivo
L’aspetto più avvilente della situazione consiste nel fatto che Marta è in balia delle decisioni di un potere cieco , quello della burocrazia ministeriale- cooperante con il potere politico e mosso, in ultima analisi, dai pregiudizi locali- contro il quale essa nulla può fare.
Burocrazia Giolittiana e pregiudizi piccolo -borghesi ne sono in pratica il sottofondo-elemento questo tipico del decadentismo Europeo-(ruolo della Burocrazia  nella seconda rivoluzione industriale)
Vediamo come descrive Pirandello il peso che ha su Marta ciò che è avvenuto:
Sempre quel nodo, sempre, irritante, opprimente, alla gola. Vedeva addensarsi, concretarsi intorno a lei una sorte iniqua, ch’era ombra prima, vana ombra, nebbia che con un soffio si sarebbe potuta disperdere: diventava macigno e la schiacciava, schiacciava la casa, tutto; e lei non poteva più far nulla contro di essa. Il fatto. C’era un fatto. qualcosa ch’ella non poteva più rimuovere; enorme per tutti, per lei stessa enorme, che pur lo sentiva nella propria coscienza inconsistente, ombra, nebbia, divenuta macigno; e il padre che avrebbe potuto scrollarlo con fiero disprezzo, se n’era invece lasciato schiacciare per il primo. Era forse un’altra, lei, dopo quel fatto? Era la stessa, si sentiva la stessa; tanto che non le pareva vero, speshttp://percorsi.blog.kataweb.it/wp-admin/post.php?action=edit&post=1470so, che la sciagura fosse avvenuta.
Il fatto con le sue conseguenze schiaccia come un macigno i personaggi, anche quando questo è inconsistente, e li costringe a vivere in un determinato modo, a prendere decisioni accettate dalla massa (e in una società’ maschilista è sempre l’uomo che decide, anche per le donne): Marta viene scacciata di casa, dopo essere stata scoperta mentre leggeva una lettera inviatale da Gregorio Alvignani ed è costretta a ritornare presso il padre, la sua famiglia viene infangata inesorabilmente ed emarginata dalla “società’ civile”, della quale non potrà’ più far parte fino a quando lo stesso fatto non verrà’ cancellato in modo credibile e verosimile per la massa da colui che aveva preso la prima grave decisione, dal marito Rocco Pentàgora.
pirandelloPirandello prende coscienza fin dai primi anni della sua produzione letteraria che il fatto non poteva essere rigidamente costituito, ma doveva essere analizzato nelle sue cause e proposto soprattutto nelle sue conseguenze.
Un personaggio femminile quindi da un punto di vista anche storico ”emblematico”-attenzione nessuna simpatia femminista è presente in Pirandello solo una pietas per un tentativo di scoprire una verità da parte di una donna che in quanto esclusa…è …….più vera degli altri- comunque perdente.
Maria Allo