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lunedì 11 gennaio 2010

CANTO VI PURGATORIO


Quando si parte il gioco de la zara,

colui che perde si riman dolente,

repetendo le volte, e tristo impara;

con l'altro se ne va tutta la gente;

qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,

e qual dallato li si reca a mente;

el non s'arresta, e questo e quello intende;

a cui porge la man, più non fa pressa;

e così da la calca si difende.

Tal era io in quella turba spessa,

volgendo a loro, e qua e là, la faccia,

e promettendo mi sciogliea da essa.

Quiv'era l'Aretin che da le braccia

fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,

e l'altro ch'annegò correndo in caccia.

Quivi pregava con le mani sporte

Federigo Novello, e quel da Pisa

che fé parer lo buon Marzucco forte.

Vidi conte Orso e l'anima divisa

dal corpo suo per astio e per inveggia,

com'e' dicea, non per colpa commisa;

Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,

mentr'è di qua, la donna di Brabante,

sì che però non sia di peggior greggia.

Come libero fui da tutte quante

quell'ombre che pregar pur ch'altri prieghi,

sì che s'avacci lor divenir sante,

io cominciai: «El par che tu mi nieghi,

o luce mia, espresso in alcun testo

che decreto del cielo orazion pieghi;

e questa gente prega pur di questo:

sarebbe dunque loro speme vana,

o non m'è 'l detto tuo ben manifesto?».

Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;

e la speranza di costor non falla,

se ben si guarda con la mente sana;

ché cima di giudicio non s'avvalla

perché foco d'amor compia in un punto

ciò che de' sodisfar chi qui s'astalla;

e là dov'io fermai cotesto punto,

non s'ammendava, per pregar, difetto,

perché 'l priego da Dio era disgiunto.

Veramente a così alto sospetto

non ti fermar, se quella nol ti dice

che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto.

Non so se 'ntendi: io dico di Beatrice;

tu la vedrai di sopra, in su la vetta

di questo monte, ridere e felice».

E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,

ché già non m'affatico come dianzi,

e vedi omai che 'l poggio l'ombra getta».

«Noi anderem con questo giorno innanzi»,

rispuose, «quanto più potremo omai;

ma 'l fatto è d'altra forma che non stanzi.

Prima che sie là sù, tornar vedrai

colui che già si cuopre de la costa,

sì che ' suoi raggi tu romper non fai.

Ma vedi là un'anima che, posta

sola soletta, inverso noi riguarda:

quella ne 'nsegnerà la via più tosta».

Venimmo a lei: o anima lombarda,

come ti stavi altera e disdegnosa

e nel mover de li occhi onesta e tarda!

Ella non ci dicea alcuna cosa,

ma lasciavane gir, solo sguardando

a guisa di leon quando si posa.

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando

che ne mostrasse la miglior salita;

e quella non rispuose al suo dimando,

ma di nostro paese e de la vita

ci 'nchiese; e 'l dolce duca incominciava

«Mantua...», e l'ombra, tutta in sé romita,

surse ver' lui del loco ove pria stava,

dicendo: «O Mantoano, io son Sordello

de la tua terra!»; e l'un l'altro abbracciava.

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di province, ma bordello!

Quell'anima gentil fu così presta,

sol per lo dolce suon de la sua terra,

di fare al cittadin suo quivi festa;

e ora in te non stanno sanza guerra

li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode

di quei ch'un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode

le tue marine, e poi ti guarda in seno,

s'alcuna parte in te di pace gode.

Che val perché ti racconciasse il freno

Iustiniano, se la sella è vota?

Sanz'esso fora la vergogna meno.

Ahi gente che dovresti esser devota,

e lasciar seder Cesare in la sella,

se bene intendi ciò che Dio ti nota,

guarda come esta fiera è fatta fella

per non esser corretta da li sproni,

poi che ponesti mano a la predella.

O Alberto tedesco ch'abbandoni

costei ch'è fatta indomita e selvaggia,

e dovresti inforcar li suoi arcioni,

giusto giudicio da le stelle caggia

sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto,

tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!

Ch'avete tu e 'l tuo padre sofferto,

per cupidigia di costà distretti,

che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto.

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,

Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:

color già tristi, e questi con sospetti!

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura

d'i tuoi gentili, e cura lor magagne;

e vedrai Santafior com'è oscura!

Vieni a veder la tua Roma che piagne

vedova e sola, e dì e notte chiama:

«Cesare mio, perché non m'accompagne?».

Vieni a veder la gente quanto s'ama!

e se nulla di noi pietà ti move,

a vergognar ti vien de la tua fama.

E se licito m'è, o sommo Giove

che fosti in terra per noi crucifisso,

son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

O è preparazion che ne l'abisso

del tuo consiglio fai per alcun bene

in tutto de l'accorger nostro scisso?

Ché le città d'Italia tutte piene

son di tiranni, e un Marcel diventa

ogne villan che parteggiando viene.

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta

di questa digression che non ti tocca,

mercé del popol tuo che si argomenta.

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca

per non venir sanza consiglio a l'arco;

ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca.

Molti rifiutan lo comune incarco;

ma il popol tuo solicito risponde

sanza chiamare, e grida: «I' mi sobbarco!».

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:

tu ricca, tu con pace, e tu con senno!

S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde.

Atene e Lacedemona, che fenno

l'antiche leggi e furon sì civili,

fecero al viver bene un picciol cenno

verso di te, che fai tanto sottili

provedimenti, ch'a mezzo novembre

non giugne quel che tu d'ottobre fili.

Quante volte, del tempo che rimembre,

legge, moneta, officio e costume

hai tu mutato e rinovate membre!

E se ben ti ricordi e vedi lume,

vedrai te somigliante a quella inferma

che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma.

L’incontro dei Poeti con Sordello, è il momento principale di questo VI canto. Sordello che è un’anima solitaria, quando apprende che Virgilio è un suo conterraneo, inizia una filippica contro i mali della nazione. Dante dedica gran parte del VI canto a questo personaggio. Vibrante e appassionata è l’invettiva di Sordello contro la decadenza e il malcostume dell’Italia. Dante sembra trovare in lui l’emblema dell’accusatore che con l’atteggiamento tipico di quei fanatici predicatori medievali, si scaglia contro le nefandezze che caratterizzavano i comuni di gran parte della penisola.

Vi propongo un link utile per lo studio di questo canto particolarmente
importante: CANTO VI

-PARAFRASI

-FIGURE RETORICHE


SPUNTI PER LA RIFLESSIONE

1.Ricostruite il profilo storico del trovatore provenzale Sordello da Goito.

2.Confrontate l'invettiva finale contro Firenze con la spietata analisi della vita

politica della città condotta nel canto infernale di Ciacco


3. Quali sarcastiche osservazioni il poeta rivolge a Firenze nel finale del Canto?

4.Quali distinte accuse Dante rivolge all'imperatore e ai principi italiani?


buon lavoro!

8 commenti:

Anonimo ha detto...

Sera prof.essa

Quando si divide e si scioglie il gruppo dei giocatori nel gioco dei dadi, il perdente resta solo e addolorato, tentando e ritentando nuove gettate, e malinconico cerca di imparare (a far meglio per il futuro) mentre tutti g li spettatori se ne vanno col vincitore; c'è chi gli va innanzi, e chi lo sollecita tirandogli l'abito alle spalle, e chi gli si raccomanda standogli di fianco: ma il vincitore non si ferma, e porge orecchio ora a questo ora a quello; colui al quale tende la mano (dandogli qualche cosa), non insiste più; e in tal modo egli si difende dalla ressa. Così mi trovavo io in mezzo a quella fitta schiera, guardando verso di loro ora a destra, ora a sinistra, e promettendo (di fare quanto ciascuno mi chiedeva) me ne liberavo. Tra quelle anime c'era l'Aretino che fu ucciso ferocemente da Ghino di Tacco, e l'altro (Guccio dei Tarlati) che annegò mentre inseguiva i nemici. Qui pregava con le mani tese Federigo Novello, e qui c'era Gano, il quale dette al padre, il virtuoso Marzucco, l'occasione di mostrare la sua forza d'anímo. Vidi il conte Orso e vidi pure colui che ebbe l'anima divisa dal suo corpo per odio e per invidia, com'egli diceva, e non per colpa commessa; voglio dire Pierre de la Brosse (Pier dalla Broccia); e riguardo a ciò, mentre è ancora in vita, la regina di Brabante provveda (in tempo a purificarsi del male commesso), onde per questo non vada a far parte di una moltitudine peggiore (di quella di cui fa parte Pierre de la Brosse, cioè fra i falsi accusatori della decima bolgia). Quando fui libero da tutte quelle anime che mi pregavano soltanto perché inducessi altri a pregare per loro, in modo da affrettare la loro purificazione, io dissi a Virgilio: « Sembra, o maestro, che in un passo del tuo poema tu neghi esplicitamente, che la preghiera possa mutare un decreto divino; e queste anime soltanto per questo pregano: la loro speranza sarebbe dunque vana, oppure non mi è ben chiaro il tuo testo? » Ed egli mi rispose, « La mia espressione è chiara; e la speranza di costoro non è fallace, se si medita bene con la mente sgombra da erronee opinioni; poiché la sublime altezza del giudizio divino non s'abbassa per il fatto che l'ardore di carità (di chi prega per costoro) porti a perfezione in un momento solo quell'espiazione a Dio dovuta da chi ha in questo luogo la sua dimora; e in quel passo dove feci questa affermazione, la mancanza dell'espiazione non poteva essere corretta con la preghiera, perché essa era da Dio (essendo fatta da pagani). Tuttavia non devi fermare il travaglio della tua mente di fronte a un dubbio così arduo, se non te lo dirà colei che farà da tramite tra la verità (sovrannaturale) e il tuo intelletto: non so se mi comprendi; io intendo parlare di Beatrice: tu la vedrai in alto, sulla vetta di questo monte, sorridente e felice». E io gli dissi: « Sìgnore, camminiamo più in fretta, perché ora non sento più la fatica come prima, e vedi ormai che il monte (essendo le prime ore del pomeriggio) proietta la sua ombra». Egli rispose: « Continueremo ormai a salire finché dura il giorno, quanto più potremo; ma la realtà è diversa da quello che tu giudichi. Prima che tu giunga sulla vetta, vedrai sorgere più volte, il sole, che ora già si nasconde dietro la costa del monte, cosicché tu non interrompi più i suoi raggi (proiettando la tua ombra). Ma vedi là quell'anima che sta tutta sola e che guarda insistentemente verso di noi: essa ci mostrerà la via più breve ».

Salvà Antonella

Anonimo ha detto...

Segue la parafrasi
Ci avviammo verso di lei: o anima lombarda, come te ne stavi altera e sdegnosa e com'eri dignitosa e grave nel muovere i tuoi occhi! Essa non ci diceva nulla, ma ci lasciava avanzare, seguendoci solo con lo sguardo attento come un leone quando si riposa. Soltanto Virgilio le si avvicinò, pregandola che ci indicasse la strada migliore per salire; ed essa non rispose alla sua domanda,ma chiese notizie sulla nostra patria e sulla nostra condizione; e mentre la mia dolce guida cominciava a dire: « Mantova ... », quell'ombra, tutta solitaria e raccolta in se stessa, si levò dal luogo dove stava prima protendendosi verso di lui, dicendo: « O mantovano, io sono Sordello, della tua stessa terra! »; e si abbracciavano l'un l'altro. Ahi, schiava Italia, albergo di dolori, nave senza pilota nel mezzo d'una immane tempesta, non più signora di popoli, ma luogo di turpitudine! Quell'anima nobile lì, nel purgatorio, fu così pronta a far festa al suo concittadino, solo al sentire il dolce suono del nome della sua terra; mentre ora dentro i tuoi confini non sanno stare senza guerra i tuoi abitanti, e quelli che sono chiusi entro le mura e il fossato (d'una stessa città) si dilaniano l'un l'altro. Guardati, infelice, intorno cominciando dalle coste del mare che ti circonda, e osserva poi il tuo territorio interno, e vedi se ti riesce di trovare una regione sola che goda pace. A che è servito che Giustiniano ti abbia aggiustato il freno del vivere civile (con le leggi) se ora non hai in sella l'imperatore (che fa osservare le leggi)? Senza questo freno oggi la tua vergogna sarebbe minore (perché un popolo senza leggi non è colpevole della sua anarchia). Ahi, gente di Chiesa, che dovresti dedicarti solo a opere di pietà, e lasciar sedere l'imperatore sulla sella (a esercitare l'autorità civile), se comprendi rettamente quello che Dio ti ha prescritto, osserva come questa cavalla è diventata ribelle per il fatto che non è guidata e domata dagli speroni dell'imperatore, da quando hai preso in mano la sua briglia. O Alberto d'Asburgo, che abbandoni a se stessa questa cavalla divenuta indomita e selvaggia, mentre dovresti inforcare i suoi arcioni, scenda dal cielo una giusta punizione sopra te e la tua stirpe, e sia una punizione inaudita e chiara, e tale che il tuo successore ne concepisca timore! Perché tu e il padre tuo, tutti presi dalla cupidigia degli interessi della Germania, avete tollerato che l'Italia, il giardino dell'impero, fosse devastata. Vieni a vedere, o uomo senza interesse, i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i Filippeschi: quelli ormai vinti, e questi pieni di timore! Vieni, o uomo crudele, vieni a vedere le umiliazioni e le dìfficoltà della tua nobiltà, e poni rimedio alla sua rovina; e vedrai Santafiora come è tranquilla! Vieni a vedere la tua Roma che piange nella sua solitudine e vedovanza, e giorno e notte invoca: « 0 mio re, perché mi abbandoni? »
Salvà Antonella

Anonimo ha detto...

Segue

Vieni a vedere come la gente d'Italia si vuol bene! e se non vi è alcun sentimento di pietà verso di noi che ti possa commuovere, vieni a cogliere la vergogna del discredito (che ti sei procurato con il tuo disinteresse). O Cristo che sulla terra fosti per noi crocifisso, se ciò mi è permesso, ti chiedo: la tua giustizia si è rivolta altrove? Oppure nell'abisso della tua sapienza permetti, tutto questo in preparazione di qualche bene totalmente inaccessibile al nostro intelletto? Poiché le città d'Italia sono tutte piene di tiranni, e qualsiasi villano che diventa capo di una fazione assume di fronte all'impero atteggiamento di un Marcello (appartenente al partito pompeiano e console nel 50 a. C., fu acerrimo nemico di Cesare). Tu Firenze mia, puoi proprio esser lieta di questa digressione che non ti sfiora, grazie al tuo popolo che s'ingegna per il tuo bene. Molti (in altre città) hanno in cuore il senso della giustizia, eppure lentamente si manifesta, per non essere espresso sconsideratamente; invece il tuo popolo ha sempre la giustizia sulle labbra. Molti (altrove) rifiutano le cariche pubbliche; invece il tuo popolo senza essere chiamato risponde sollecito, grìdando: « Io sono pronto ad accettare il grave peso delle cariche!» Ora rallegrati, perché ne hai proprio motivo, tu sei ricca, tu sei in pace, tu sei saggia! I fatti dimostrano la verità che io affermo. Atene e Sparta, che fecero le antiche leggi ed ebbero una civiltà tanto elevata, riguardo a una ordinata vita civile fecero appena un insignificante tentativo in confronto di te che decidi provvedimenti tanto ingegnosi e fragili, che quello che escogiti in ottobre non giunge alla metà di novembre. Quante volte, in questi ultimi anni hai cambiato leggi, moneta, cariche e costumi e hai rinnovato (secondo il prevalere delle fazioni e il susseguirsi degli esili) i tuoi cittadini! E se ti ricordi bene e non sei completamente cieca, ti scoprirai somigliante a quell'inferma che non riesce a trovare riposo nemmeno giacendo sulle piume, e voltandosi e rivoltandosi sui fianchi, cerca invano di fare schermo al suo dolore.

Salvà Antonella

Anonimo ha detto...

Domande
Come già nell'Inferno, il sesto canto è dedicato al tema politico.
Mentre nel sesto canto dell'Inferno Dante presenta, in un breve dialogo con Ciacco, Firenze divisa in fazioni e oggetto delle mire di papa Bonifacio VIII, il sesto canto del Purgatorio allarga la considerazione all'Italia tutta, vista per di più in rapporto con le due massime istituzioni, Impero e Chiesa.
Nucleo fondante di tutto il sesto canto del Purgatorio è l'invettiva all'Italia, la più lunga della Commedia nelle sue venticinque terzine. In questa, pronunciata dallo stesso Dante in seguito all'incontro con Sordello da Goito, l'Italia è paragonata ad una nave priva di guida (questo paragone è presente anche nel De Monarchia e nelle Epistole) e ad un cavallo privo di cavaliere (citando il Convivio) in quanto l'Imperatore non si cura di essa concentrando tutta l'attenzione sulla Germania. Per questo motivo sulla stirpe imperiale deve scendere la pena divina. Dante coglie l'occasione per attaccare anche la Chiesa, che interferisce nelle vicende politiche più che occuparsi della materia spirituale che dovrebbe competerle.
Alla fine dell'invettiva Firenze viene citata come esempio di corruzione e povertà morale.
Non bisogna trascurare il fatto che l'apostrofe inizia quasi alla metà del canto, dopo una preparazione graduale: dalla scena affollata dei morti violentemente che chiedono di essere ricordati, alla spiegazione dottrinale affidata a Virgilio, alla raffigurazione di un misterioso ed altero personaggio, all'improvviso incontro tra due "concittadini" divisi da circa tredici secoli di storia e tuttavia uniti dal semplice nome della loro città.
L'invettiva all'Italia (nonché al papa, all'imperatore, a Firenze) trae il suo vigore espressivo dall'uso intenso di figure retoriche: dalle numerose metafore che connotano l'Italia, alle esclamazioni, alle anafore dei vv. 106,109,112,115 e 130,133. Frequenti anche le personificazioni (Italia, Roma, Firenze) sulle quali si innestano domande o esortazioni. Evidente l'uso dell'ironia e del sarcasmo nelle terzine dedicate a Firenze, ma il canto, con l'immagine dell'inferma che cerca invano di calmare le sue sofferenze, si chiude su una nota dolente.

Antonella Salvà

Anonimo ha detto...

ENJAMBEMENT:
vv.13/14: da le braccia / fiere di Ghin di Tacco
vv.19/20: e l’anima divisa / dal corpo
vv.25/26: da tutte quante / quell’ombre
vv.58/59: posta / sola soletta
vv. 85/86: da le prode / le tue marine
vv.123/124: tutte piene / son di tiranni
vv.142/143: tanto sottili / provvedimenti

APOSTROFE:
v. 75: Ahi serva Italia, di dolore ostello
v.91: Ahi gente che dovresti esser devota
v.97: O Alberto tedesco ch’abbandoni
v.127: Fiorenza mia, ben puoi esser contenta

ANASTROFE:
v.25: libero fui
SIMILITUDINI:
v.66: a guisa di leon quando si posa
v.148: …somigliante a quella inferma

METAFORE:
v.86: …. e poi ti guarda in seno
v.90: e lasciar seder Cesare in la sella
v.95: per non essere corretta da li sproni,
v. 96: poi che ponesti mani a la predella
v.99: e dovresti inforcar li suoi arcioni
v.105: che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto
v.129: ….. giustizia in cuore, e tardi scocca
v.130: per non venir sanza consiglio a l’arco

sineddoche : (QUI LA PARTE PER TUTTO):
v. 96 : la predella (parte della briglia)


Salvà Antonella

Anonimo ha detto...

Domande

Sordello da Goito fu uno tra i più importanti trovatori dell'Italia settentrionale (territorio di Mantova) ad ispirarsi nella sua attività poetica al modello provenzale adottando la lingua d'oc per i suoi versi.
La data di nascita è incerta ma deve verosimilmente porsi all'inizio del XIII secolo. Nacque da una famiglia appartenente alla piccola nobiltà essendo il padre miles presso il castello di Goito e la sua vita, trascorsa nelle corti più note dell'Europa, fu movimentata e intensa.
Dopo il periodo trascorso a Ferrara tra il 1220 e il 1221 presso la corte di Azzo VII d'Este dove conobbe Rambertino Buvalelli che gli fece da maestro per i primi rudimenti dell'arte poetica, Sordello si spostò a Verona presso il conte Rizzardo di Sambonifacio e risalgono a questo periodo (1225) i partimens con Guilhem de la Tor nei quali porta a difesa le tesi dell'amor cortese.
Nel 1226, sempre a Verona, fu a capo della spedizione per sottrarre la moglie di Rizzardo, Cunizza, su ordine dei fratelli della donna, Ezzelino III e Alberico da Romano.
Aveva nel frattempo sposato Otta degli Strasso, una donna di nobile famiglia di Ceneda e nel 1229 lasciò la corte dei da Romano e, in seguito a varie vicende politiche, si recò in Spagna, in Portogallo e in Provenza dove, dal conte Raimondo Berengario IV, fu insignito della nomina di cavaliere e gli furono donati alcuni feudi.
Nel 1245 morì il conte Raimondo e Sordello rimase con il suo erede Carlo I d'Angiò fino al 1265 quando, al suo seguito, poté ritornare in Italia dove nel 1269 gli vennero donati dallo stesso alcuni feudi abruzzesi e qui morì probabilmente in quello stesso anno.
Ci restano di lui 42 liriche di argomenti vari, con presenza significativa sia del tema amoroso, sia del tema politico, e un poemetto didascalico, Ensenhamen d'onor (Precetti d'onore). Il testo più famoso è il Compianto in morte di ser Blacatz, elogio funebre di un signore provenzale che proteggeva i trovatori, scritto intorno al 1237 in stile satirico.

Salvà antonella

Anonimo ha detto...

GIADA GIUFFRIDA

L’episodio di Bordello è scandito da varie apostrofi, tutte pronunciate da Dante autore: all’Italia (vv.76-90), agli uomini di Chiesa (vv. 91-96), all’imperatore Alberto (vv. 97-117), a Dio (vv.118-126), a Firenze (vv. 127-151). Quella all’imperatore è scandita dall’anafora, con alcune variazioni per renderla conciliata e sottolineata dall’allitterazione ( Vieni a veder….); e si aggiunge la ripetizione di “tu” ai vv. 136-137. La veste retorica è molto ricca e curata: abbondano le metafore ( in particolare, le tre diverse ai vv. 76-78; quella equestre dei vv. 88-99; quella dell’arco ai vv. 130-131; quella del filare ai vv. 142-144), le similitudini (vv. 149-151), le antonomasia ( Cesare ai vv. 92-114; Marcel al v.125); tutte tese a innalzare il tono; mentre l’ironia e il sarcasmo esprimono lo sdegno del poeta. Va segnalato anche il lessico, che oscilla fra punte nobili e letterarie e punte basse, addirittura volgari. Ne viene un modello di poesia insieme satirica e sostenuta, che parte dalle risorse dello stile comico per costruire un discorso più complesso.

Anonimo ha detto...

GIADA GIUFFRIDA

1) Sordello da Goito. Nato intorno all’anno 1200 a Goito, nei pressi di Mantova, fu un importante trovatore italiano. Apparteneva a una famiglia della piccola nobiltà. Soggiornò alla corte estense presso Azzo VII, poi si spostò a Verona, in Spagna e dal 1223 visse stabilmente in Provenza. Qui assunse un ruolo di rilievo, tanto che divenne consigliere del conte Raimondo Berengario IV; e scrisse le sue liriche principali, divenendo il trovatore più illustre della sua epoca: del resto, aveva iniziato già prima a ricorrere a quella lingua (l’uso letterario dei volgari italiani, all’epoca, era ancora agli albori). Nel 1265 seguì Carlo D’angiò nella spedizione militare in Italia. Da Carlo ricevette, come ricompensa per la sua fedeltà, feudi in Piemonte e in Abruzzo. Morì nel 1269.
2) Ciacco nel canto infernale parla della storia contemporanea di Firenze. La città è scenario di divisioni, risse, instabilità e continui capovolgimenti: oltre alle lotte interne, agiscono su di esse forze esterne ( in particolare Bonifacio VIII ). La diagnosi della corruzione fiorentina non è però tanto politica (Dante mostra la stessa durezza con il partito degli avversari e il proprio popolo), quanto morale. A condannare la città sono tre peccati capitali: la superbia, cioè la smania di primeggiare; l’invidia, cioè l’odio per i concittadini; l’avidità, cioè il desiderio di arricchirsi a danno di altri. Tutti questi peccati rivelano l’incapacità di pensare al bene pubblico, preferendogli interessi privati. Dal resto, alcuni interpreti individuano in essi gli stessi peccati incarnati dalle tre fiere della selva oscura: il che farebbe di Firenze solo un caso, sebbene emblematico e particolarmente doloroso per Dante, del traviamento in cui tutta l’umanità è caduta.
Invece nel canto VI del purgatorio Dante espone le cause della decadenza italiana: abbandonata dall’imperatore e in balia di lotte interne, dello strapotere della Chiesa, della confusione di leggi e costumi. In una prima apostrofe, egli invita Alberto I d’Austria, colpevole di disinteresse, a venir nella penisola per vederne il disastro; in una seconda si rivolge a Firenze, sarcasticamente portata a esempio di questa drammatica crisi.
Il quadro tracciato è così cupo, da sfiorare toni apocalittici; eppure, è realistico il quadro di dande? La sua ottica imperiale e aristocratica coglie elementi effettivi di crisi, insistendo sugli aspetti morali; ma al tempo stesso, demonizza l’evoluzione dei comuni italiani, la cui prosperità era reale, anche se comportava conflitti interni alle città. Da un lato, Dante ha un’ideologia conservatrice, che rifiuta le nuove istituzioni e richiama alle autorità antiche: l’Impero, il codice di Giustiniano, il Vangelo che vieta alla Chiesa di esercitare un potere mondano, la vecchia nobiltà feudale, i costumi del passato. Dall’altro, egli propone l’utopia di un mondo ordinato e unitario, in cui il potere centrale fondato sulla legge (ma anche sul volere di Dio) conduca gli uomini alla felicità. Soprattutto difende un principio moderno e antimedievale: la fine della teocrazia, cioè della subordinazione del potere civile a quello religioso. L’Impero era entrato in una crisi da cui non sarebbe uscito; ma l’idea di grandi monarchie nazionali andava prendendo piede in altri paesi, seppure su basi diverse da quelle volute da Dante.