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sabato 16 gennaio 2010

CANTIERE DI SCRITTURA DANTESCA VI CANTO


ANTONELLA SALVA'

Sordello da Goito fu uno tra i più importanti trovatori dell'Italia settentrionale (territorio di Mantova) ad ispirarsi nella sua attività poetica al modello provenzale adottando la lingua d'oc per i suoi versi.
La data di nascita è incerta ma deve verosimilmente porsi all'inizio del XIII secolo. Nacque da una famiglia appartenente alla piccola nobiltà essendo il padre miles presso il castello di Goito e la sua vita, trascorsa nelle corti più note dell'Europa, fu movimentata e intensa.
Dopo il periodo trascorso a Ferrara tra il 1220 e il 1221 presso la corte di Azzo VII d'Este dove conobbe Rambertino Buvalelli che gli fece da maestro per i primi rudimenti dell'arte poetica, Sordello si spostò a Verona presso il conte Rizzardo di Sambonifacio e risalgono a questo periodo (1225) i partimens con Guilhem de la Tor nei quali porta a difesa le tesi dell'amor cortese.
Nel 1226, sempre a Verona, fu a capo della spedizione per sottrarre la moglie di Rizzardo, Cunizza, su ordine dei fratelli della donna, Ezzelino III e Alberico da Romano.
Aveva nel frattempo sposato Otta degli Strasso, una donna di nobile famiglia di Ceneda e nel 1229 lasciò la corte dei da Romano e, in seguito a varie vicende politiche, si recò in Spagna, in Portogallo e in Provenza dove, dal conte Raimondo Berengario IV, fu insignito della nomina di cavaliere e gli furono donati alcuni feudi.
Nel 1245 morì il conte Raimondo e Sordello rimase con il suo erede Carlo I d'Angiò fino al 1265 quando, al suo seguito, poté ritornare in Italia dove nel 1269 gli vennero donati dallo stesso alcuni feudi abruzzesi e qui morì probabilmente in quello stesso anno.
Ci restano di lui 42 liriche di argomenti vari, con presenza significativa sia del tema amoroso, sia del tema politico, e un poemetto didascalico, Ensenhamen d'onor (Precetti d'onore). Il testo più famoso è il Compianto in morte di ser Blacatz, elogio funebre di un signore provenzale che proteggeva i trovatori, scritto intorno al 1237 in stile satirico.

ENJAMBEMENT:
vv.13/14: da le braccia / fiere di Ghin di Tacco
vv.19/20: e l’anima divisa / dal corpo
vv.25/26: da tutte quante / quell’ombre
vv.58/59: posta / sola soletta
vv. 85/86: da le prode / le tue marine
vv.123/124: tutte piene / son di tiranni
vv.142/143: tanto sottili / provvedimenti

APOSTROFE:
v. 75: Ahi serva Italia, di dolore ostello
v.91: Ahi gente che dovresti esser devota
v.97: O Alberto tedesco ch’abbandoni
v.127: Fiorenza mia, ben puoi esser contenta

ANASTROFE:
v.25: libero fui
SIMILITUDINI:
v.66: a guisa di leon quando si posa
v.148: …somigliante a quella inferma

METAFORE:
v.86: …. e poi ti guarda in seno
v.90: e lasciar seder Cesare in la sella
v.95: per non essere corretta da li sproni,
v. 96: poi che ponesti mani a la predella
v.99: e dovresti inforcar li suoi arcioni
v.105: che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto
v.129: ….. giustizia in cuore, e tardi scocca
v.130: per non venir sanza consiglio a l’arco

sineddoche : (QUI LA PARTE PER TUTTO):
v. 96 : la predella (parte della briglia)
Come già nell'Inferno, il sesto canto è dedicato al tema politico.
Mentre nel sesto canto dell'Inferno Dante presenta, in un breve dialogo con Ciacco, Firenze divisa in fazioni e oggetto delle mire di papa Bonifacio VIII, il sesto canto del Purgatorio allarga la considerazione all'Italia tutta, vista per di più in rapporto con le due massime istituzioni, Impero e Chiesa.
Nucleo fondante di tutto il sesto canto del Purgatorio è l'invettiva all'Italia, la più lunga della Commedia nelle sue venticinque terzine. In questa, pronunciata dallo stesso Dante in seguito all'incontro con Sordello da Goito, l'Italia è paragonata ad una nave priva di guida (questo paragone è presente anche nel De Monarchia e nelle Epistole) e ad un cavallo privo di cavaliere (citando il Convivio) in quanto l'Imperatore non si cura di essa concentrando tutta l'attenzione sulla Germania. Per questo motivo sulla stirpe imperiale deve scendere la pena divina. Dante coglie l'occasione per attaccare anche la Chiesa, che interferisce nelle vicende politiche più che occuparsi della materia spirituale che dovrebbe competerle.
Alla fine dell'invettiva Firenze viene citata come esempio di corruzione e povertà morale.
Non bisogna trascurare il fatto che l'apostrofe inizia quasi alla metà del canto, dopo una preparazione graduale: dalla scena affollata dei morti violentemente che chiedono di essere ricordati, alla spiegazione dottrinale affidata a Virgilio, alla raffigurazione di un misterioso ed altero personaggio, all'improvviso incontro tra due "concittadini" divisi da circa tredici secoli di storia e tuttavia uniti dal semplice nome della loro città.
L'invettiva all'Italia (nonché al papa, all'imperatore, a Firenze) trae il suo vigore espressivo dall'uso intenso di figure retoriche: dalle numerose metafore che connotano l'Italia, alle esclamazioni, alle anafore dei vv. 106,109,112,115 e 130,133. Frequenti anche le personificazioni (Italia, Roma, Firenze) sulle quali si innestano domande o esortazioni. Evidente l'uso dell'ironia e del sarcasmo nelle terzine dedicate a Firenze, ma il canto, con l'immagine dell'inferma che cerca invano di calmare le sue sofferenze, si chiude su una nota dolente.
Vieni a vedere come la gente d'Italia si vuol bene! e se non vi è alcun sentimento di pietà verso di noi che ti possa commuovere, vieni a cogliere la vergogna del discredito (che ti sei procurato con il tuo disinteresse). O Cristo che sulla terra fosti per noi crocifisso, se ciò mi è permesso, ti chiedo: la tua giustizia si è rivolta altrove? Oppure nell'abisso della tua sapienza permetti, tutto questo in preparazione di qualche bene totalmente inaccessibile al nostro intelletto? Poiché le città d'Italia sono tutte piene di tiranni, e qualsiasi villano che diventa capo di una fazione assume di fronte all'impero atteggiamento di un Marcello (appartenente al partito pompeiano e console nel 50 a. C., fu acerrimo nemico di Cesare). Tu Firenze mia, puoi proprio esser lieta di questa digressione che non ti sfiora, grazie al tuo popolo che s'ingegna per il tuo bene. Molti (in altre città) hanno in cuore il senso della giustizia, eppure lentamente si manifesta, per non essere espresso sconsideratamente; invece il tuo popolo ha sempre la giustizia sulle labbra. Molti (altrove) rifiutano le cariche pubbliche; invece il tuo popolo senza essere chiamato risponde sollecito, grìdando: « Io sono pronto ad accettare il grave peso delle cariche!» Ora rallegrati, perché ne hai proprio motivo, tu sei ricca, tu sei in pace, tu sei saggia! I fatti dimostrano la verità che io affermo. Atene e Sparta, che fecero le antiche leggi ed ebbero una civiltà tanto elevata, riguardo a una ordinata vita civile fecero appena un insignificante tentativo in confronto di te che decidi provvedimenti tanto ingegnosi e fragili, che quello che escogiti in ottobre non giunge alla metà di novembre. Quante volte, in questi ultimi anni hai cambiato leggi, moneta, cariche e costumi e hai rinnovato (secondo il prevalere delle fazioni e il susseguirsi degli esili) i tuoi cittadini! E se ti ricordi bene e non sei completamente cieca, ti scoprirai somigliante a quell'inferma che non riesce a trovare riposo nemmeno giacendo sulle piume, e voltandosi e rivoltandosi sui fianchi, cerca invano di fare schermo al suo dolore.Ci avviammo verso di lei: o anima lombarda, come te ne stavi altera e sdegnosa e com'eri dignitosa e grave nel muovere i tuoi occhi! Essa non ci diceva nulla, ma ci lasciava avanzare, seguendoci solo con lo sguardo attento come un leone quando si riposa. Soltanto Virgilio le si avvicinò, pregandola che ci indicasse la strada migliore per salire; ed essa non rispose alla sua domanda,ma chiese notizie sulla nostra patria e sulla nostra condizione; e mentre la mia dolce guida cominciava a dire: « Mantova ... », quell'ombra, tutta solitaria e raccolta in se stessa, si levò dal luogo dove stava prima protendendosi verso di lui, dicendo: « O mantovano, io sono Sordello, della tua stessa terra! »; e si abbracciavano l'un l'altro. Ahi, schiava Italia, albergo di dolori, nave senza pilota nel mezzo d'una immane tempesta, non più signora di popoli, ma luogo di turpitudine! Quell'anima nobile lì, nel purgatorio, fu così pronta a far festa al suo concittadino, solo al sentire il dolce suono del nome della sua terra; mentre ora dentro i tuoi confini non sanno stare senza guerra i tuoi abitanti, e quelli che sono chiusi entro le mura e il fossato (d'una stessa città) si dilaniano l'un l'altro. Guardati, infelice, intorno cominciando dalle coste del mare che ti circonda, e osserva poi il tuo territorio interno, e vedi se ti riesce di trovare una regione sola che goda pace. A che è servito che Giustiniano ti abbia aggiustato il freno del vivere civile (con le leggi) se ora non hai in sella l'imperatore (che fa osservare le leggi)? Senza questo freno oggi la tua vergogna sarebbe minore (perché un popolo senza leggi non è colpevole della sua anarchia). Ahi, gente di Chiesa, che dovresti dedicarti solo a opere di pietà, e lasciar sedere l'imperatore sulla sella (a esercitare l'autorità civile), se comprendi rettamente quello che Dio ti ha prescritto, osserva come questa cavalla è diventata ribelle per il fatto che non è guidata e domata dagli speroni dell'imperatore, da quando hai preso in mano la sua briglia. O Alberto d'Asburgo, che abbandoni a se stessa questa cavalla divenuta indomita e selvaggia, mentre dovresti inforcare i suoi arcioni, scenda dal cielo una giusta punizione sopra te e la tua stirpe, e sia una punizione inaudita e chiara, e tale che il tuo successore ne concepisca timore! Perché tu e il padre tuo, tutti presi dalla cupidigia degli interessi della Germania, avete tollerato che l'Italia, il giardino dell'impero, fosse devastata. Vieni a vedere, o uomo senza interesse, i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i Filippeschi: quelli ormai vinti, e questi pieni di timore! Vieni, o uomo crudele, vieni a vedere le umiliazioni e le dìfficoltà della tua nobiltà, e poni rimedio alla sua rovina; e vedrai Santafiora come è tranquilla! Vieni a vedere la tua Roma che piange nella sua solitudine e vedovanza, e giorno e notte invoca: « 0 mio re, perché mi abbandoni? »

GIADA GIUFFRIDA

1) Sordello da Goito. Nato intorno all’anno 1200 a Goito, nei pressi di Mantova, fu un importante trovatore italiano. Apparteneva a una famiglia della piccola nobiltà. Soggiornò alla corte estense presso Azzo VII, poi si spostò a Verona, in Spagna e dal 1223 visse stabilmente in Provenza. Qui assunse un ruolo di rilievo, tanto che divenne consigliere del conte Raimondo Berengario IV; e scrisse le sue liriche principali, divenendo il trovatore più illustre della sua epoca: del resto, aveva iniziato già prima a ricorrere a quella lingua (l’uso letterario dei volgari italiani, all’epoca, era ancora agli albori). Nel 1265 seguì Carlo D’angiò nella spedizione militare in Italia. Da Carlo ricevette, come ricompensa per la sua fedeltà, feudi in Piemonte e in Abruzzo. Morì nel 1269. 2) Ciacco nel canto infernale parla della storia contemporanea di Firenze. La città è scenario di divisioni, risse, instabilità e continui capovolgimenti: oltre alle lotte interne, agiscono su di esse forze esterne ( in particolare Bonifacio VIII ). La diagnosi della corruzione fiorentina non è però tanto politica (Dante mostra la stessa durezza con il partito degli avversari e il proprio popolo), quanto morale. A condannare la città sono tre peccati capitali: la superbia, cioè la smania di primeggiare; l’invidia, cioè l’odio per i concittadini; l’avidità, cioè il desiderio di arricchirsi a danno di altri. Tutti questi peccati rivelano l’incapacità di pensare al bene pubblico, preferendogli interessi privati. Dal resto, alcuni interpreti individuano in essi gli stessi peccati incarnati dalle tre fiere della selva oscura: il che farebbe di Firenze solo un caso, sebbene emblematico e particolarmente doloroso per Dante, del traviamento in cui tutta l’umanità è caduta. Invece nel canto VI del purgatorio Dante espone le cause della decadenza italiana: abbandonata dall’imperatore e in balia di lotte interne, dello strapotere della Chiesa, della confusione di leggi e costumi. In una prima apostrofe, egli invita Alberto I d’Austria, colpevole di disinteresse, a venir nella penisola per vederne il disastro; in una seconda si rivolge a Firenze, sarcasticamente portata a esempio di questa drammatica crisi. Il quadro tracciato è così cupo, da sfiorare toni apocalittici; eppure, è realistico il quadro di dande? La sua ottica imperiale e aristocratica coglie elementi effettivi di crisi, insistendo sugli aspetti morali; ma al tempo stesso, demonizza l’evoluzione dei comuni italiani, la cui prosperità era reale, anche se comportava conflitti interni alle città. Da un lato, Dante ha un’ideologia conservatrice, che rifiuta le nuove istituzioni e richiama alle autorità antiche: l’Impero, il codice di Giustiniano, il Vangelo che vieta alla Chiesa di esercitare un potere mondano, la vecchia nobiltà feudale, i costumi del passato. Dall’altro, egli propone l’utopia di un mondo ordinato e unitario, in cui il potere centrale fondato sulla legge (ma anche sul volere di Dio) conduca gli uomini alla felicità. Soprattutto difende un principio moderno e antimedievale: la fine della teocrazia, cioè della subordinazione del potere civile a quello religioso. L’Impero era entrato in una crisi da cui non sarebbe uscito; ma l’idea di grandi monarchie nazionali andava prendendo piede in altri paesi, seppure su basi diverse da quelle volute da Dante. L’episodio di Bordello è scandito da varie apostrofi, tutte pronunciate da Dante autore: all’Italia (vv.76-90), agli uomini di Chiesa (vv. 91-96), all’imperatore Alberto (vv. 97-117), a Dio (vv.118-126), a Firenze (vv. 127-151). Quella all’imperatore è scandita dall’anafora, con alcune variazioni per renderla conciliata e sottolineata dall’allitterazione ( Vieni a veder….); e si aggiunge la ripetizione di “tu” ai vv. 136-137. La veste retorica è molto ricca e curata: abbondano le metafore ( in particolare, le tre diverse ai vv. 76-78; quella equestre dei vv. 88-99; quella dell’arco ai vv. 130-131; quella del filare ai vv. 142-144), le similitudini (vv. 149-151), le antonomasia ( Cesare ai vv. 92-114; Marcel al v.125); tutte tese a innalzare il tono; mentre l’ironia e il sarcasmo esprimono lo sdegno del poeta. Va segnalato anche il lessico, che oscilla fra punte nobili e letterarie e punte basse, addirittura volgari. Ne viene un modello di poesia insieme satirica e sostenuta, che parte dalle risorse dello stile comico per costruire un discorso più complesso.


1 commento:

cristina bove ha detto...

ecco, questo si intende per non dimenticare!
Chi insegna a ricordare, insegna davvero all'anima.
e forse il modo potrà cambiare.