Il valore della cooperazione nell'innovazione della didattica Moderatrice:Prof.ssa Maria Allo
sabato 10 novembre 2018
sabato 22 settembre 2018
Nel nome di Clizia
E. MONTALE- IRMA BRANDEIS |
http://www.900letterario.it/focus-letteratura/nel-nome-di-clizia-mottetti-montale/
Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa poi ebbe anche da noi, a un giuoco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera – oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione – spinta. […] Anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia. […] Il nuovo libro non era meno romanzesco del primo».(E. Montale, Intervista immaginaria, in Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1976)
Mottetti costituisce la seconda sezione di Le Occasioni di Montale. Il titolo allude alla “poesia d’occasione”, nel senso che in questo periodo si infittiscono, nell’opera di Montale, i riferimenti a persone, eventi, circostanze della vita privata e pubblica. Eppure il poeta ha sempre rifiutato di precisare le circostanze biografiche della sua ispirazione. In una lettera del 1966, a un amico critico che gli chiede chiarimenti, scrive: «La mia poesia non è vera, non è vissuta, non è autobiografica, non serve identificare questa o quella donna…».
Al centro delle Occasioni, dunque, si trova una serie di ventuno brevi componimenti dedicati a una donna, cantata con il senhal di Clizia, presenza indefinita, con il riferimento al mito ovidiano della ninfa innamorata di Apollo-Sole che fu trasformata in girasole, il fiore che si volge costantemente a cercare la luce del sole: «lla suum, quamvis radice tenetur/ vertitur ad Solem, mutataque servat amorem» (Ovidio, Metamorfosi, IV, v. 262 e sgg.). Clizia, colei che (si) inclina (gr. klitòs) ovvero, secondo la polisemia del verbo latino, colei che si piega, si muta e ha dedizione verso qualcosa. Nei Mottetti, a lei dedicati, la distanza si fa smisurata, quasi astrale: Clizia, creatura di luce, porta in dono d’amore un segno del mondo autentico. Quando il poeta avverte la sua presenza, e anche quando crede di essere ingannato “Altro era il suo stampo”, egli esprime il desiderio di affidarsi a lei perché lo metta in contatto con quel mondo misterioso, se esiste. E non conta tanto il dono (di cui il poeta non è mai certo) quanto il desiderio di quel segno. Certo, il segno che si compone nell’aria del mattino e nelle cose, può essere riconosciuto solo dai sensi dell’innamorato. Solo colui che sente il passo di Clizia nel pulsare del proprio sangue può percepire in segreto il fenomeno della neve che rispetta il rumore di quei passi, e quello dell’ombra della palma che s’innerva/ sul muro, cioè che «si dirama come un fascio di luce nel tessuto del proprio corpo» (D. Isella). Conta che la donna lo guidi a sfidare il vuoto, il tedio, l’arduo nulla: la verità è nella sfida che si compie in virtù dell’amore di Clizia.
Al centro delle Occasioni, dunque, si trova una serie di ventuno brevi componimenti dedicati a una donna, cantata con il senhal di Clizia, presenza indefinita, con il riferimento al mito ovidiano della ninfa innamorata di Apollo-Sole che fu trasformata in girasole, il fiore che si volge costantemente a cercare la luce del sole: «lla suum, quamvis radice tenetur/ vertitur ad Solem, mutataque servat amorem» (Ovidio, Metamorfosi, IV, v. 262 e sgg.). Clizia, colei che (si) inclina (gr. klitòs) ovvero, secondo la polisemia del verbo latino, colei che si piega, si muta e ha dedizione verso qualcosa. Nei Mottetti, a lei dedicati, la distanza si fa smisurata, quasi astrale: Clizia, creatura di luce, porta in dono d’amore un segno del mondo autentico. Quando il poeta avverte la sua presenza, e anche quando crede di essere ingannato “Altro era il suo stampo”, egli esprime il desiderio di affidarsi a lei perché lo metta in contatto con quel mondo misterioso, se esiste. E non conta tanto il dono (di cui il poeta non è mai certo) quanto il desiderio di quel segno. Certo, il segno che si compone nell’aria del mattino e nelle cose, può essere riconosciuto solo dai sensi dell’innamorato. Solo colui che sente il passo di Clizia nel pulsare del proprio sangue può percepire in segreto il fenomeno della neve che rispetta il rumore di quei passi, e quello dell’ombra della palma che s’innerva/ sul muro, cioè che «si dirama come un fascio di luce nel tessuto del proprio corpo» (D. Isella). Conta che la donna lo guidi a sfidare il vuoto, il tedio, l’arduo nulla: la verità è nella sfida che si compie in virtù dell’amore di Clizia.
Ecco il segno; s’innerva
sul muro che s’indora:
un frastaglio di palma
bruciato dai barbagli dell’aurora.
Il passo che proviene
dalla serra sì lieve,
non è felpato dalla neve, è ancora
tua vita, sangue tuo nelle mie vene.
Clizia ha gli attributi contrastanti del fuoco e del gelo (suggeriti dal significato del suo nome tedesco, Brand-fuoco (letteralmente: incendio), Eis-ghiaccio). L’identità di questa donna dagli occhi di acciaio è rimasta a lungo oscura. Con il tempo Clizia è stata identificata con Irma Brandeis, giovane ebrea americana studiosa di Dante, colta, poliglotta e cosmopolita, conosciuta nel 1933 quando lei era venuta a Firenze per conoscere a fondo la lingua del sommo poeta. Montale si era trasferito a Firenze nel 1927; lavorò prima presso la casa Editrice Bemporad, poi come direttore del prestigioso Gabinetto Viesseux.
Tra i due nacque un’intensa e combattuta relazione, interrotta nel 1938 quando lei si vide costretta a far ritorno negli Stati Uniti per sottrarsi alle leggi razziali e, nel contempo, Montale venne licenziato dal Gabinetto Viesseux perché non iscritto al partito fascista. Una storia, quella tra Montale e Irma Brandeis, dopo il suo ritorno in America soprattutto epistolare. Fantasma in bilico tra assenza e presenza, dunque, figura della separazione e dell’addio, messaggera astrusa e lampeggiante di un’improbabile salvezza, la protagonista di Nuove stanze e di tutta la serie deiMottetti identificata con il suo nome più noto, Clizia, solo in una nota della Bufera. Per vent’anni è rimasta chiusa in una cartella di cartone nella cassaforte dell’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux. Fu la stessa Brandeis, nel 1983, a consegnare le lettere ad Alessandro Bonsanti, con la richiesta che non fossero rese pubbliche prima di vent’anni. Poesie, biglietti e fogli sparsi aiutano dunque a ricostruire una delle storie d’amore più tormentate del Novecento italiano. Irma Brandeis è diventata davvero, adesso, come la ninfa della leggenda, un girasole sempre più lontano e dolente.
«Portami il girasole, ch’io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino… – aveva scritto Montale – portami il girasole impazzito di luce».
Per il poeta Montale la beatificazione dell’assente è fonte della sua poesia più alta e nell’elaborazione del mito, Clizia si connette simbolicamente al tema della salvezza non solo personale ma si fa anche emblema della salvezza dalla violenza e dei valori laici della cultura e dello spirito. Il forzato allontanamento di Irma Brandeis dall’Italia diviene, in chiave metafisica, il corrispettivo del sacrificio di Cristo che, morendo, può garantire una salvezza per tutti (La primavera hitleriana). Come Cristo, con il suo sacrificio la donna «si distrugge/ in lui per tutti» (vv. 37-38). La sua lontananza assume quindi una valenza paradossalmente positiva. Attraverso la mediazione di questa donna, sembra dunque assumere nuove connotazioni la fiducia già presente nel primo Montale di “un’altra orbita”, di una dimensione esistenziale diversa e possibile da raggiungere solo per pochi. È Montale stesso ad aver usato nel 1961 l’espressione visiting angel e in queste vesti è raffigurata Clizia, in particolare nel primo mottetto, Ti libero la fronte dai ghiaccioli, scritto probabilmente nel gennaio del 1940 e apparso in rivista nello stesso anno e in volume nella seconda edizione delle Occasioni. Clizia diviene così la nuova Beatrice e assume connotati soprannaturali: è la donna –angelo che scende dalle «alte nebulose» a visitare il poeta. Ma potremmo trovare che la somiglianza è tanto suggestiva proprio perché apparente, e invece di nascondere, mette in luce l’assoluta novità del miracolo che qui si compie. Clizia è diversa dalla sublime Beatrice, venuta «da cielo in terra a miracol mostrare» (Vita Nova , XXVI,” Tanto gentile e tanto onesta pare..”). Il suo è un cielo d’ alte nebulose, turbato dai cicloni. Insomma è il cielo degli uomini e vediamo una donna-angelo avvicinata, nelle qualità e nella sorte, alla condizione umana. Per questo appare più viva la sua grazia e più credibile il suo messaggio.
Tra i due nacque un’intensa e combattuta relazione, interrotta nel 1938 quando lei si vide costretta a far ritorno negli Stati Uniti per sottrarsi alle leggi razziali e, nel contempo, Montale venne licenziato dal Gabinetto Viesseux perché non iscritto al partito fascista. Una storia, quella tra Montale e Irma Brandeis, dopo il suo ritorno in America soprattutto epistolare. Fantasma in bilico tra assenza e presenza, dunque, figura della separazione e dell’addio, messaggera astrusa e lampeggiante di un’improbabile salvezza, la protagonista di Nuove stanze e di tutta la serie deiMottetti identificata con il suo nome più noto, Clizia, solo in una nota della Bufera. Per vent’anni è rimasta chiusa in una cartella di cartone nella cassaforte dell’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux. Fu la stessa Brandeis, nel 1983, a consegnare le lettere ad Alessandro Bonsanti, con la richiesta che non fossero rese pubbliche prima di vent’anni. Poesie, biglietti e fogli sparsi aiutano dunque a ricostruire una delle storie d’amore più tormentate del Novecento italiano. Irma Brandeis è diventata davvero, adesso, come la ninfa della leggenda, un girasole sempre più lontano e dolente.
«Portami il girasole, ch’io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino… – aveva scritto Montale – portami il girasole impazzito di luce».
Per il poeta Montale la beatificazione dell’assente è fonte della sua poesia più alta e nell’elaborazione del mito, Clizia si connette simbolicamente al tema della salvezza non solo personale ma si fa anche emblema della salvezza dalla violenza e dei valori laici della cultura e dello spirito. Il forzato allontanamento di Irma Brandeis dall’Italia diviene, in chiave metafisica, il corrispettivo del sacrificio di Cristo che, morendo, può garantire una salvezza per tutti (La primavera hitleriana). Come Cristo, con il suo sacrificio la donna «si distrugge/ in lui per tutti» (vv. 37-38). La sua lontananza assume quindi una valenza paradossalmente positiva. Attraverso la mediazione di questa donna, sembra dunque assumere nuove connotazioni la fiducia già presente nel primo Montale di “un’altra orbita”, di una dimensione esistenziale diversa e possibile da raggiungere solo per pochi. È Montale stesso ad aver usato nel 1961 l’espressione visiting angel e in queste vesti è raffigurata Clizia, in particolare nel primo mottetto, Ti libero la fronte dai ghiaccioli, scritto probabilmente nel gennaio del 1940 e apparso in rivista nello stesso anno e in volume nella seconda edizione delle Occasioni. Clizia diviene così la nuova Beatrice e assume connotati soprannaturali: è la donna –angelo che scende dalle «alte nebulose» a visitare il poeta. Ma potremmo trovare che la somiglianza è tanto suggestiva proprio perché apparente, e invece di nascondere, mette in luce l’assoluta novità del miracolo che qui si compie. Clizia è diversa dalla sublime Beatrice, venuta «da cielo in terra a miracol mostrare» (Vita Nova , XXVI,” Tanto gentile e tanto onesta pare..”). Il suo è un cielo d’ alte nebulose, turbato dai cicloni. Insomma è il cielo degli uomini e vediamo una donna-angelo avvicinata, nelle qualità e nella sorte, alla condizione umana. Per questo appare più viva la sua grazia e più credibile il suo messaggio.
Ti libero la fronte dai ghiaccioliche raccogliesti traversando l’ altenebulose; hai le penne laceratedai cicloni, ti desti a soprassalti.Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolol’ombra nera, s’ostina in cielo un solefreddoloso; e l’ alte ombre che scantonanonel vicolo non sanno che sei qui.
Questa delicata poesia d’amore e insieme di angoscia è uno dei tanti esempi di altissimo valore nello sviluppo dell’intera poesia italiana del Novecento. La ricerca di musicalità, come sempre in Montale, è particolarmente attenta ed efficace. Ma è Irma Brandeis a far risuonare una nuova musica nelle corde di Montale con una frantumazione di versi caratterizzata da numerose assonanze interne e parallelismi. Il poeta è l’unico a sapere della presenza della donna: l’unico a viverla e a conoscerla, custode partecipe di un segreto e di un tesoro che ne sanciscono la superiorità rispetto alle altre ombre e al loro e vile “scantonare”. In ogni caso, la poesia si costruisce attorno al tema dell’incontro prezioso e clandestino, delle cure prestate e ricevute, oscilla tra l’angoscia della prigionia del poeta e il sollievo della fuga, del miracolo inaspettato. Una certa “oscurità” di Montale potrebbe essere invece frutto di una scelta precisa del poeta che rinvia alle suggestioni della poesia di Paul Verlaine (promotore del motto «de la musique avant toute chose») e all’influenza della Metafisica di tre grandi artisti Giorgio De Chirico, Carlo Carrà e Alberto Savinio. La pittura metafisica infatti, con le sue immagini enigmatiche, ambigue e misteriose, aspira a superare i limiti del visibile e della realtà ma è assolutamente priva di ambizioni conoscitive: gli enigmi che propone sono destinati a rimanere irrisolti, ma non per questo producono angoscia, paura e frustrazione. Le opere di De Chirico e di Savinio sono intime e filosofiche, ricche di suggestioni simboliche e letterarie, mentre l’ex futurista Carrà è maggiormente interessato a problematiche più strettamente formali. Montale, in questa seconda raccolta, mostra ancora di seguire la poetica degli oggetti, che però non caricano più la natura e il paesaggio marino della Liguria di una valenza simbolica (come gli stessi “ossi di seppia”), ma sono più di frequente frutto di lavoro artigianale o tecnico, essendo presente un indeterminato paesaggio urbano, popolato da uomini-automi. Una poetica di oggetti e non di parole in cui si avverte la consonanza con la poesia di T. S. Eliot e di autori secenteschi come l’inglese John Donne, o anche di Robert Browning, di Charles Baudelaire e di altri moderni.
Addii, fischi nel buio, cenni, tossee sportelli abbassati. È l’ora. Forsegli automi hanno ragione. Come appaionodai corridoi, murati!. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .– Presti anche tu alla fiocalitania del tuo rapido quest’orridae fedele cadenza di carioca?
Questo mottetto (1939), appartiene alle poesie aggiunte alla seconda edizione delle Occasioni. Sullo sfondo convulso di una stazione di notte, si compie qualcosa di doloroso, forse una separazione; viene il pensiero di arrendersi a un modo di vivere insensato da automi. Nella seconda strofa appare un tentativo di riscattarsi stabilendo un legame con una persona lontana: ma è solo una speranza, sottolineata dal tono interrogativo, una speranza che ancora una volta cerca il miracolo nella scena quotidiana, in sé banale.
I Mottetti non si aprono con un suono bensì con un rumore; quello del primo mottetto Lo sai debbo riperderti ci introduce nella tensione irrisolta tra il personaggio che dice «io» e il fantasma femminile, labile e sfuggente, evocato dal «tu» che fin dalla sua entrata in scena si presenta senza la minima connotazione emotiva, chiuso nell’altera consapevolezza della loro distanza («Lo sai: debbo riperderti e non posso»), che concede solo incerti barlumi del «certo suo fuoco» (per citare il balcone). E l’unica certezza che rimane al poeta è allora necessariamente quella dell’inferno («E l’inferno è certo»), nella quale il testo trova la sua conclusione, lapidaria e definitiva, contro l’ipotesi sempre più evanescente di una sempre più improbabile salvezza. Il verso si spezza sull’oggetto della ricerca fallita: te (e l’ossitono sembra appuntire la scheggia dolorosa).
I Mottetti non si aprono con un suono bensì con un rumore; quello del primo mottetto Lo sai debbo riperderti ci introduce nella tensione irrisolta tra il personaggio che dice «io» e il fantasma femminile, labile e sfuggente, evocato dal «tu» che fin dalla sua entrata in scena si presenta senza la minima connotazione emotiva, chiuso nell’altera consapevolezza della loro distanza («Lo sai: debbo riperderti e non posso»), che concede solo incerti barlumi del «certo suo fuoco» (per citare il balcone). E l’unica certezza che rimane al poeta è allora necessariamente quella dell’inferno («E l’inferno è certo»), nella quale il testo trova la sua conclusione, lapidaria e definitiva, contro l’ipotesi sempre più evanescente di una sempre più improbabile salvezza. Il verso si spezza sull’oggetto della ricerca fallita: te (e l’ossitono sembra appuntire la scheggia dolorosa).
Lo sai: debbo riperderti e non posso.Come un tiro aggiustato mi sommuoveogni opera, ogni grido e anche lo spirosalino che straripadai moli e fa l’oscura primaveradi Sottoripa.Paese di ferrame e alberaturea selva nella polvere del vespro.Un ronzio lungo viene dall'aperto,strazia com’unghia i vetri. Cerco il segnosmarrito, il pegno solo ch’ebbi in graziada te.E l’inferno è certo.
Le Occasioni si presentano come un romanzo d’amore fornito di due sensi, l’uno letterale e l’altro allegorico: la donna amata da Montale potrebbe essere la poesia, attraverso la quale si manifesta la divinità. L’incontro con Clizia è raro e imprevisto. Costituisce l’esperienza del divino che è permesso agli uomini; il suo abbandono ci fa sprofondare nuovamente in quel perenne “inferno” che è la terra.
© Maria Allo
Fonti
Luperini, Cataldi et L. Marchiani, La scrittura e l’interpretazione, vol. XIV, Palermo 1992Eugenio Montale, Mottetti, a cura di Dante Isella, Piccola Biblioteca 21, Adelphi Edizioni
Parenti, Vegezzi, Viola, La ricerca letteraria Il tempo storico e le forme, ed. Zanichelli 1994
Il manifesto Autore: Marco Sonzogni, Montale e Clizia, l’infelicità di dirsi addio.Gramigna, Le forme del desiderio, Garzanti, Milano 1986 Gramigna, Che cosa sa il poeta?, Garzanti , Milano 1986Contini, Una lunga fedeltà. Scritti su E. Montale, Einaudi, Torino 1974, pp.19-41
G. Armellini, A. Colombo (a cura di), La letteratura italiana “Novecento”, ed. Zanichelli
“Questa stupida faccia”. Un carteggio nel segno di Eugenio Montale Brandeis,ed. ArchintoPerché Letteratura di R. Luperini, Modernità e contemporaneità, ed. Palumbo
Bonora, Le Metamorfosi del vero, Saggi sulle “Occasioni “di E. Montale, Bonacci Roma 1981
venerdì 14 settembre 2018
Desistenza
Edvard Munch |
Di questa malattia profonda di
cui tutti siamo stati infetti, il fascismo non è stato che un sintomo acuto: e
la resistenza è stata la crisi benefica che ci ha guariti, col ferro e col
fuoco, da questo universale deperimento dello spirito.[...] Ciò che ci turba
non è il veder circolare di nuovo per le piazze queste facce note: il pericolo
non è lì; non saranno i vecchi fascisti che rifaranno il fascismo. Che tornino
in libertà i torturatori e i collaborazionisti e i razziatori può essere una
incresciosa necessità di pacificazione che non cancella il disgusto: talvolta
il perdono è una forma superiore di disprezzo. No, il pericolo non è in loro: è
negli altri, è in noi: in questa facilità di oblio, in questo rifiuto di trarre
le conseguenze logiche della esperienza sofferta, in questo riattaccarsi con
pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato.
Da:”Lo stato siamo noi”, di
Pietro Calamandrei
martedì 5 giugno 2018
Samuel Ullman: La gioventù non è un periodo della vita, è uno stato d’animo...
La gioventù non è un periodo della vita, è uno stato d’animo; non è una questione di guance rosee, labbra rosse e ginocchia agili; è un fatto di volontà, forza di fantasia.
Vigore di emozioni: è la freschezza delle sorgenti profonde
della vita.
Gioventù significa istintivo dominio del coraggio sulla
paura, del desiderio di avventura sull’amore per gli agi.
E spesso se ne trova di più in un uomo di 60 anni che in un
giovane di venti.
Nessuno invecchia semplicemente perchè gli anni passano.
Si invecchia quando si tradiscono i propri ideali.
Gli anni possono far venire le rughe alla pelle,
ma la rinuncia agli entusiasmi riempie di rughe l’anima.
Le preoccupazioni, la paura, la sfiducia in se stessi
fanno mancare il cuore e piombare lo spirito nella polvere.
A 60 anni o a 16, c’è sempre nel cuore di ogni essere umano
il desiderio di essere meravigliati,
l’immancabile infantile curiosità di sapere cosa succederà
ancora,
la gioia di partecipare al grande gioco della vita.
Al centro del vostro cuore e del mio cuore
c’è una stazione del telegrafo senza fili:
finchè riceverà messaggi di bellezza, speranza, gioia,
coraggio e forza
dagli uomini e dall’infinito, resterete giovani.
Quando le antenne riceventi sono abbassate,
e il vostro spirito è coperto dalla neve del cinismo
e dal ghiaccio del pessimismo,allora siete vecchi, anche a
vent’anni;
ma finchè le vostre antenne saranno alzate, per captare le
onde dell’ottimismo,
c’è speranza che possiate morire giovani a 100 anni.
Di Samuel Ullman
sabato 26 maggio 2018
Hannah Arendt: L’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri...
Gregory Colbert |
L’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità. Di fronte al fanciullo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo.
In: "Tra passato e futuro (Pag. 247)", di Hannah
Arendt
venerdì 25 maggio 2018
Norberto Bobbio:Spinoza definisce l’umiltà «tristitia orta ex eo quod homo suam impotentiam sive imbecillitatem contemplatur» («tristezza sorta dal fatto che l’uomo contempla la sua impotenza o debolezza»)...
Oreste Albertini |
Spinoza definisce l’umiltà «tristitia orta ex eo quod homo
suam impotentiam sive imbecillitatem contemplatur» («tristezza sorta dal fatto
che l’uomo contempla la sua impotenza o debolezza») e la “tristitia” viene a
sua volta definita come «transitio a maiore ad minorem perfectionem» («passaggio
da una maggiore a una minore perfezione»). La differenza tra mitezza e umiltà
sta, a mio parere, in quel “tristitia”: la mitezza non è una forma di
“tristitia”, perché anzi è una forma del suo opposto, la “laetitia”, intesa
proprio come il passaggio da una minore a una maggiore perfezione. Il mite è
ilare perché è intimamente convinto che il mondo da lui vagheggiato sarà
migliore di quello in cui è costretto a vivere, e lo prefigura nella sua azione
quotidiana, esercitando appunto la virtù della mitezza, anche se sa che questo
mondo non esiste qui e ora, e forse non esisterà mai.
venerdì 11 maggio 2018
venerdì 4 maggio 2018
martedì 1 maggio 2018
Lucio Anneo Seneca: All'origine c'è un profondo malessere spirituale...
Affresco romano |
All'origine c'è un profondo
malessere spirituale: quando uno beve, la lingua si inceppa solo se la mente
soccombe al peso del vino e vacilla o si abbandona, così questa forma di
ubriachezza del linguaggio non è dannosa finché l'anima rimane salda. Curiamo perciò
l'anima: da essa scaturiscono i pensieri, le parole, da essa deriva il nostro
comportamento, l'espressione del volto, l'incedere. Se l'anima è sana e
vigorosa, anche il linguaggio è energico, forte, virile: se l'anima soccombe,
anche il resto la segue nella caduta.
In: “Lettere a Lucilio” di
Lucio Anneo Seneca
Zygmunt Bauman: La nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no....
Arturo Nathan, La Palude, 1937 |
La nostra vita è un’opera
d’arte – che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige
l’arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte –
porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare
a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel
momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata, e standard di
eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare (almeno per quanto si è
visto fino allora) ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la
capacità di fare. Dobbiamo tentare l’impossibile. E possiamo solo sperare –
senza poterci basare su previsioni affidabili e tanto meno certe – di riuscire
prima o poi, con uno sforzo lungo e lancinante, a eguagliare quegli standard e
a raggiungere quegli obiettivi, dimostrandoci così all’altezza della sfida.
In: “L'arte della vita” di
Zygmunt Bauman
domenica 29 aprile 2018
Umberto Galimberti: L’intelligenza non si dà in una forma unica, ma in una moltitudine di forme...
Ben Goossens |
L’intelligenza non si dà in una forma unica, ma in una moltitudine di forme, la maggior parte delle quali trova nelle nostre scuole, nei centri di diagnosi psicologica e nel giudizio della gente la sua mortificazione.[...]
Così si stroncano inclinazioni
sull’altare della genericità, che non è il nozionismo contro cui si sono fatte
in anni passati stupide battaglie, ma la supposizione che l’intelligenza sia
una dimensione versatile e versata per qualsiasi contenuto.
Non è così! Così come non è da
privilegiare, come fa la nostra scuola, l’intelligenza convergente, che è
quella forma di pensiero che non si lascia influenzare dagli spunti
dell’immaginazione, ma tende all’univocità de scuola, è l’intelligenza
divergente tipica dei creativi, capaci di soluzioni molteplici e originali,
perché, invece di accontentarsi della soluzione dei problemi, tendono a
riorganizzare gli elementi, fino a ribaltare i termini del problema per dar
vita a nuove ideazioni.
Tratto da: “ I miti del nostro
tempo” di Umberto Galimberti
mercoledì 21 marzo 2018
mercoledì 31 gennaio 2018
TG CANALE 2_TWITTER: “LA BREVITÀ COME STRATEGIA DI SCRITTURA” CONCORSO S...
La brevità come strategia di scrittura: il tema
di quest'anno è la Metamorfosi. Un invito
a meditare prima di scrivere il messaggio da veicolare
venerdì 26 gennaio 2018
Per la Giornata della Memoria: il “Coro dei superstiti” di Nelly Sachs
Scrivevo tre anni fa, e riconfermo ogni parola, aggiungo da Lettere Migranti anche la traduzione di Anna Maria Curci .
Il 27 Gennaio una data stabilita per legge. Ma la memoria non può essere identificata con una sola data (anche se il 27 gennaio è la data in cui gli alleati liberarono e aprirono agli occhi del mondo il campo di concentramento di Auschwitz). Perciò pubblico oggi una poesia di Nelly Sachs, forse la poetessa che più di altri ha saputo parlare dello sterminio degli ebrei, dei campi di concentramento, dei forni crematori, anche se non è stata ospite in nessuno dei campi allestiti dai nazisti. Lei è riuscita a riparare in Svezia (nel 1940), dove poi è sempre vissuta, facendo la traduttrice.
Nata a Berlino nel 1891, è morta a Stoccolma nel 1970. Ha scritto alcuni libri di poesie che sono tra le più drammatiche testimonianze dell’Olocausto. Ma anche dell’esilio, della condizione dell’ebreo errante. Ho scelto questa poesia di Nelly Sachs, Coro dei superstiti, perché è bella e famosa, ed è sul piano testimoniale molto intensa. Lei è stata insignita del Premio Nobel nel 1966. Quindi la lettura di questo testo – a mio parere – porta con sé un’amplificazione del suo significato che per un evento come il Giorno della Memoria è molto importante. La motivazione del Nobel diceva: ”Per la sua lirica lirica notevole e la scrittura drammatica, che interpreta il destino di Israele con forza toccante”. Quello che è singolare nella sua vita è che tutto ciò che aveva scritto prima dell’espatrio, abitando in Germania, lei lo ha rifiutato, disconosciuto. Come se fosse nata alla scrittura soltanto quando la realtà irreparabile del genocidio l’ha fatta diventare “vedente”. E pur non avendo visto i lager nazisti (se non dopo), ha interpretato la grande disperazione, la grande tragedia, come forse nessun altro. Tra le altre cose ha scritto i poemi drammatici Segni sulla sabbia (Zeichen im Sand, 1962), Incantesimo (Verzauberung, 1970). inoltre, le seguenti raccolte di liriche: Nelle dimore della morte (In den Wohnungen des Todes, 1947), Fuga e trasformazione (Flucht und Verwandlung, 1959), Al di là della polvere (Fahrt ins Staublose, 1961), Alla ricerca dei viventi (Suche nach Lebenden, 1971). Gli uni e le altre vivono una lingua di grande intensità metaforica, che parlano della storia e delle vicissitudini del popolo ebraico nel passato e nel presente.
Chor der Geretteten
Wir Geretteten,
Aus deren hohlem Gebein der Tod schon seine Flöten schnitt,
An deren Sehnen der Tod schon seine Bogen strich –
Unsere Leiber klagen noch nach
Mit ihrer verstümmelten Musik.
Wir Geretteten,
Immer noch hängen die Schlingen für unsere Hälse gedreht
Vor uns in der blauen Luft –
Immer noch füllen sich die Stundenuhren mit unserem tropfenden Blut.
Wir Geretteten,
Immer noch essen an uns die Würmer der Angst.
Unser Gestirn ist vergraben im Staub.
Wir Geretteten
Bitten euch:
Zeigt uns langsam eure Sonne.
Führt uns von Stern zu Stern im Schritt.
Laßt uns das Leben leise wieder lernen.
Es könnte sonst eines Vogels Lied,
Das Füllen des Eimers am Brunnen
Unseren schlecht versiegelten Schmerz aufbrechen lassen
Und uns wegschäumen –
Wir bitten euch:
Zeigt uns noch nicht einen beißenden Hund –
Es könnte sein, es könnte sein
Dass wir zu Staub zerfallen –
Vor euren Augen zerfallen in Staub.
Was hält denn unsere Webe zusammen?
Wir odemlos gewordene,
Deren Seele zu Ihm floh aus der Mitternacht
Lange bevor man unseren Leib rettete
In die Arche des Augenblicks.
Wir Geretteten,
Wir drücken eure Hand,
Wir erkennen euer Auge –
Aber zusammen hält uns nur noch der Abschied,
Der Abschied im Staub
Hält uns mit euch zusammen.
Nelly Sachs
Dal ciclo di poesie Aus den Wohnungen des Todes (Dalle dimore della morte), pubblicato nel 1947.
Coro dei salvati
Noi salvati,
Dalle cui ossa cave la morte ha già intagliato i suoi flauti,
Sui cui tendini la morte ha già fatto scorrere i suoi archetti –
Risuona ancora il lamento dei nostri corpi
Con la loro musica mutilata.
Noi salvati,
Pendono ancora i cappi ritorti per le nostre gole
Dinanzi a noi nell’aria azzurra –
Ancora le clessidre si riempiono del nostro sangue stillante.
Noi salvati
Ancora si cibano di noi i vermi dell’angoscia
La nostra stella è sepolta nella polvere.
Noi salvati
Vi chiediamo:
Mostrateci pian piano il vostro sole.
Di stella in stella riportateci al passo
Fateci apprendere di nuovo, a voce bassa, la vita.
Potrebbe darsi, altrimenti, che il canto di un uccello,
Il secchio che al pozzo si riempie
Forzino il nostro dolore sigillato malamente
E come schiuma ci spazzino via-
Vi chiediamo:
Non ci mostrate ancora un cane che morde –
Potrebbe darsi, potrebbe darsi
Che polvere diventiamo –
Dinanzi ai vostri occhi ci disfiamo in polvere.
Che cosa tiene insieme la nostra tela?
Noi divenuti senza respiro,
La cui anima volò a Lui dalla mezzanotte
Molto tempo prima che portassero in salvo il nostro corpo
Nell’arca dell’attimo.
Noi salvati
Vi stringiamo la mano,
Riconosciamo il vostro occhio –
Ma insieme ci tiene ancora soltanto il distacco,
Il distacco nella polvere
Ci tiene uniti a voi.
Nelly Sachs
(traduzione di Anna Maria Curci)
“Noi superstiti”. L’identificazione con chi è scampato allo sterminio, alle camere a gas, permette di eternare la tragedia immane del popolo ebraico sacrificato alla megalomania distruttrice di un potere cieco e bieco, fondato sulla violenza e sul razzismo, come quello nazista. E ancora di più oggi il ricordo dello status di superstite dai lager, con il quale si accomuna chiunque sia riuscito a evitare l’internamento, chiunque sia riuscito a salvarsi da quell'esperienza e da quella morte, fissa nello specchio della storia l’eccidio realmente avvenuto, nonostante tutte le negazioni che possano essere affermate. Come possono persone di cultura come il vescovo lefebvriano Richard Williamson e il priore della Madonna di Loreto (a Spadarolo, nel comune di Rimini), Don Floriano Abrahamowicz, Don Floriano in più avrebbe detto che in fondo le camere a gas sono state usate per disinfettare. Disinfettare che cosa? Ma sembra abbia detto ancora, il priore, che le sue parole sono state travisate. E ha sostenuto che avesse invece detto che non sa se le camere a gas siano state usate veramente per uccidere. Beh, non cambia nulla. Come si può oggi, dopo le testimonianze lasciate da chi è stato appunto “superstite” (vale la pena ricordare i tanti libri scritti da Primo Levi, di cui lo scorso anno ho proposto la poesia d’apertura del libro Se questo è un uomo) e dopo che sono stati archiviati diverse centinaia di filmati girati nei campi dagli stessi nazisti (quindi non considerabili finti come fossero semplici “sceneggiati” di pura invenzione), sostenere che i campi di sterminio non sono esistiti? La vera iattura non è dimenticare, è invece sostenere una falsità nonostante le prove e le testimonianze dirette sull'evento più pernicioso del secolo scorso. Ricordare quindi, non dimenticare, ma anche opporsi esibendo sempre prove indiscutibili alla rimozione falsificante e strumentale della realtà storica. E la poesia non è il verbo che apre la verità, di qualsiasi cosa essa parli? Che la poesia dunque sappia, possa, voglia, incunearsi nell'incredulità di chi non sa o non vuole sapere. Ottavio Rossani
Dal mio blog
Li vidi quei bambini
Maria Allo
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