La Divina Commedia - Purgatorio e Paradiso (Illustrazioni di Doré)
Il valore della cooperazione nell'innovazione della didattica Moderatrice:Prof.ssa Maria Allo
domenica 31 gennaio 2010
La Divina Commedia - Purgatorio e Paradiso (Illustrazioni di Doré)
CANTIERE DI SCRITTURA DANTESCA VIII CANTO
MANILA TROVATO
sera prof. ecco il mio commento:
Tra il colloquio di Dante e Nino Visconti e quello di Dante e Corrado Cisalpina,è inserita una sequenza, in cui si conclude il rito della tentazione che si ripete ogni sera nella valletta dei principi: il serpente (il peccato) arriva nella valletta, strisciando tra i fiori (i piaceri terreni), ma fugge alla vista degli angeli (l'aiuto divino).
Dante meravigliato vede tre delle stelle al posto delle quattro che brillavano nel cielo la mattina. il messaggio è che le virtù cardinali (fortezza, prudenza, temperanza e giustizia), non sono sufficienti per evitare la tentazioni, ma infatti occorrono le virtù teologali (fede, speranza e carità).
La valle dove le anime hanno in precedenza intonato l'inno "Salve Regina" è quella condizione terrena, già serena prima del peccato originale, in cui l'uomo è straniero e pellegrino, esposto alla contraddizione del male. la valletta riassume l'ambiguità della realtà mondana, originariamente buona, poi segnata dalla presenza del bene e del male. secondo Bottagisio, Pietrobono e successivamente dal Forti, la scena ha anche una valenza politica: gli angeli rappresentano i due poteri, temporale e spirituale, costituiti dalla provvidenza come rimedio al peccato originale. il rito, come ha ben descritto Petronio, è il vero cuore pulsante del canto, infatti ad esso è funzionale il tema dell'esilio dalla patria terrena.
GIADA GIUFFRIDA
È l’ora del tramonto, che dà occasione a Dante di scrivere uno degli esordi più intensi del poema: “Era già l’ora che volge il disio/ ai navicanti e ‘ntenerisce il core/ lo dì c’han detto ai dolci amici addio…”. Una delle anime della valletta alza le mani e, guardando fisso verso oriente, inizia ad intonare l’inno “Te lucis ante”, seguita da tutti gli altri penitenti. A questo punto due angeli con due spade infuocate e senza punta scendono dal cielo e si pongono ai due lati della valletta, in modo da lasciare nel mezzo le anime dei penitenti. Sordello spiega che i due angeli sono stati inviati dalla Madonna per proteggere la valletta, perché di lì a poco comparirà un serpente, e invita i poeti a scendere tra le anime. Qui un’anima comincia a fissare Dante, e i due si riconoscono: è Nino Visconti, signore della Gallura in Sardegna, figlio di Giovanni e genero del conte Ugolino della Gherardesca. Il poeta scopre con gioia che è destinato alla salvezza, e i due amici si salutano caramente. Mentre Dante si sofferma a fissare tre stelle luminose apparse al posto delle quattro ammirate al mattino dalla spiaggia, giunge il serpente: forse, lo stesso che spinse Eva a cogliere il frutto proibito nel Paradiso terrestre. Con grande rapidità intervengono gli angeli che, messa in fuga la serpe, volano via.
Tema centrale del canto è l’esilio. L’esilio riguarda i principi del la valletta, esclusi per lungo tempo dalla citta celeste. Il tema,inoltre, viene ampliato con il riferimento al peccato originale nell’episodio del serpente: a causa di esso gli uomini vennero cacciati per sempre, dunque esiliati, dal Paradiso terrestre.
MERY PAFUMI
SIMBOLI:
•Le tre stelle rappresentano le tre virtù teologiche: FEDE SPERANZA E CARITA’, prendendo il posto delle quattro stelle che rappresentavano la PRUDENZA, GIUSTIZIA, FORTEZZA, TEMPERANZA.
•La spada simboleggia la giustizia
•Il verde delle vesti e delle ali è simbolo della speranza
ANTONELLA SALVA'
Al calar del giorno, una delle anime che si trovano nella valletta dei principi chiede alle altre attenzione e silenzio: al che, intona la preghiera della compieta, il Te lucis ante terminum, richiesta di aiuto a Dio contro le tentazioni della notte. Tutte, allora, si uniscono a lei un canto soave, nell'ascolto del quale Dante si immerge profondamente. Segue un appello del poeta al lettore perché interpreti correttamente - cioè in senso allegorico e non in modo semplicistico - gli eventi che verranno descritti. Due angeli con due spade infuocate, ma prive delle punte, dalle ali e dalle vesti di color verde, scendono sulle anime: la loro chioma è bionda, ma il volto è talmente luminoso che a mala pena può essere scorto. Sordello, dopo aver spiegato che essi vengono dall'Empireo a proteggere la valle dall'imminente avvento del serpente, invita Dante a parlare con le anime che ivi dimorano. Avviene allora l'incontro tra Dante e il giudice Nino Visconti, al termine del quale lo sguardo di Dante è attratto dalla vista di tre stelle, simbolo delle tre virtù teologali. Subito dopo compare, strisciando tra l'erba e i fiori, l'annunciato serpente, tempestivamente messo in fuga dai due angeli. Sventato il pericolo, Dante si mette a parlare con una seconda anima, quella di Corrado Malaspina che prima di congedarsi profetizza al poeta il suo futuro soggiorno in Lunigiana presso la sua famiglia.
giovedì 28 gennaio 2010
CANTO VIII - PURGATORIO
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quand'io incominciai a render vano
l'udire e a mirare una de l'alme
surta, che l'ascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l'oriente,
come dicesse a Dio: 'D'altro non calme'.
'Te lucis ante' sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;
e l'altre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l'inno intero,
avendo li occhi a le superne rote.
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
chè 'l velo è ora ben tanto sottile,
certo che 'l trapassar dentro è leggero.
Io vidi quello essercito gentile
tacito poscia riguardare in sùe
quasi aspettando, palido e umìle;
e vidi uscir de l'alto e scender giùe
due angeli con due spade affocate,
tronche e private de le punte sue.
Verdi come fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate.
L'un poco sovra noi a star si venne,
e l'altro scese in l'opposita sponda,
sì che la gente in mezzo si contenne.
Ben discernea in lor la testa bionda;
ma ne la faccia l'occhio si smarria,
come virtù ch'a troppo si confonda.
«Ambo vegnon del grembo di Maria»,
disse Sordello, «a guardia de la valle,
per lo serpente che verrà vie via».
Ond'io, che non sapeva per qual calle,
mi volsi intorno, e stretto m'accostai,
tutto gelato, a le fidate spalle.
E Sordello anco: «Or avvalliamo omai
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
grazioso fia lor vedervi assai».
Solo tre passi credo ch'i' scendesse,
e fui di sotto, e vidi un che mirava
pur me, come conoscer mi volesse.
Temp'era già che l'aere s'annerava,
ma non sì che tra li occhi suoi e ' miei
non dichiarisse ciò che pria serrava.
Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei:
giudice Nin gentil, quanto mi piacque
quando ti vidi non esser tra ' rei!
Nullo bel salutar tra noi si tacque;
poi dimandò: «Quant'è che tu venisti
a piè del monte per le lontane acque?».
«Oh!», diss'io lui, «per entro i luoghi tristi
venni stamane, e sono in prima vita,
ancor che l'altra, sì andando, acquisti».
E come fu la mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita.
L'uno a Virgilio e l'altro a un si volse
che sedea lì, gridando:«Sù, Currado!
vieni a veder che Dio per grazia volse».
Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado
che tu dei a colui che sì nasconde
lo suo primo perché, che non lì è guado,
quando sarai di là da le larghe onde,
dì a Giovanna mia che per me chiami
là dove a li 'nnocenti si risponde.
Non credo che la sua madre più m'ami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
le quai convien che, misera!, ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d'amor dura,
se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende.
Non le farà sì bella sepultura
la vipera che Melanesi accampa,
com'avria fatto il gallo di Gallura».
Così dicea, segnato de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo
che misuratamente in core avvampa.
Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,
pur là dove le stelle son più tarde,
sì come rota più presso a lo stelo.
E 'l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?».
E io a lui: «A quelle tre facelle
di che 'l polo di qua tutto quanto arde».
Ond'elli a me: «Le quattro chiare stelle
che vedevi staman, son di là basse,
e queste son salite ov'eran quelle».
Com'ei parlava, e Sordello a sé il trasse
dicendo:«Vedi là 'l nostro avversaro»;
e drizzò il dito perché 'n là guardasse.
Da quella parte onde non ha riparo
la picciola vallea, era una biscia,
forse qual diede ad Eva il cibo amaro.
Tra l'erba e ' fior venìa la mala striscia,
volgendo ad ora ad or la testa, e 'l dosso
leccando come bestia che si liscia.
Io non vidi, e però dicer non posso,
come mosser li astor celestiali;
ma vidi bene e l'uno e l'altro mosso.
Sentendo fender l'aere a le verdi ali,
fuggì 'l serpente, e li angeli dier volta,
suso a le poste rivolando iguali.
L'ombra che s'era al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu da me guardare sciolta.
«Se la lucerna che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant'è mestiere infino al sommo smalto»,
cominciò ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l'antico, ma di lui discesi;
a' miei portai l'amor che qui raffina».
«Oh!», diss'io lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch'ei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s'io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura sì la privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e 'l mal cammin dispregia».
Ed elli: «Or va; che 'l sol non si ricorca
sette volte nel letto che 'l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinione
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d'altrui sermone,
se corso di giudicio non s'arresta».
Ricostruite il modo in cui si svolge questo rito e, dopo aver letto il commento (fotocopia) relativo,spiegate il valore simbolico.
lunedì 25 gennaio 2010
Shoah giornata della memoria
Il 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, si celebra in tutto il mondo il Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati nei campi nazisti.
Affinché questo Giorno non si esaurisca in un momento isolato, ma al contrario sia inserito in un più ampio progetto educativo e culturale:«Il ricordo non deve essere solo come mera contemplazione del passato. Bensì come premessa della capacità di costruire. Come mandato per il futuro. Questo mi sembra il vero senso del Giorno della Memoria».Steiner
da non cancellare
marchio d'offesa
per sempre
e nei ricordi
di chi vi ha assistito
inesauribile fonte
di male
Il corpo e l'anima
dei sommersi
spezza
ma il germe d'infamia
sugli oppressori
resta
è negazione
stanchezza
rinuncia
da non dimenticare
Maria Allo
“Mai si è parlato tanto di memoria storica da quando è caduto il muro di Berlino nell’autunno ’89, e tuttavia questo discorrere concitato restava ingabbiato nel nominalismo: i fatti riesumati non erano che flatus vocis, il cui significato sembrava essere destinato a sperdersi (…) La storia recente dell’uomo europeo si riassume in questa incapacità di cadere nel tempo e di conoscerlo. Di lavorare sulla memoria, ma anche di oltrepassarla per estendere i confini e costruire su di essa (…) Quel che ci salva, che ci dà il senso del tempo, è il nostro “esser nani che camminano sulle spalle dei giganti”. I giganti sono le nostre storie, i successivi e contraddittori volti che abbiamo avuto in passato, e in quanto tali personificano il vissuto personale e collettivo che ci portiamo dietro come bagagli. Dalle loro alte spalle possiamo vedere un certo numero di cose in più, e un po’ più lontano. Pur avendola vista assai debole possiamo, col loro aiuto, andare al di là della memoria e dell’oblio”.
B. SPINELLI, Il sonno della memoria, Milano, 2001
CRISTINA BOVE ,POETESSA DI ROMA PER NOI!
Chi insegna a ricordare, insegna davvero all'anima.
e forse il mondo potrà cambiare.Cristina Bove
Il "GIORNO DELLA MEMORIA" che viene celebrato ogni 27 gennaio, nella nazione e nelle scuole, serve proprio per non dimenticare le sofferenze di allora, per evitare nuove sofferenze oggi ad altri popoli e ad altre persone, in qualsiasi parte del mondo. Voglio citare questo passo di Primo Levi:
A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Quando questo avviene… al termine della catena, sta il Lager.
Carmelo Bucalo
27 Gennaio, Giorno della Memoria è diventato un’occasione fondamentale, per le scuole, di formare tanti giovani tramite una importante attività didattica e di ricerca. E’ essenziale far riflettere i ragazzi su cosa l’umanità è stata in grado di fare, ed è per questo che il Giorno della Memoria non deve essere solo un evento commemorativo ma anche un evento di formazione ed educazione. Allo stesso tempo però, è utile ricordare le vittime della Shoah, il brutale genocidio subito dalla popolazione ebraica d’Europa, per non dimenticare le sofferenze di allora.
MARIANGELA LEOTTA
Il 27 gennaio fu proclamata giornata dedicata alla memoria ( shoah) perchè le forze alleate aprirono i cancelli di Auschwitz.Vengono ricordati gli errori e la crudeltà dei fascisti durante la seconda guerra mondiale,ma viene anche ricordato il coraggio di molti uomini che aiutarono i perseguitati mettendo in gioco la propria vita cercando di sovravvivere a questo massacro. Si pensa che tutto ciò sia successo solo in Germania dove troviamo molti campi di concentramento,ma non fu così perchè partirono treni per la morte da tutto il mondo. Dove venne fatta proprio una selezione dei deportati; tutti gli uomini ebrei vennero usati per lavori forzati e tutti i restanti compreso i bambini furono destinati per essere mandati nelle camere a gas. L'immersione dei ricordi si spera potrebbe svegliare l'umanità a non commettere più questi errori e di aumentare il senso di fraternità che spesso viene messo a tacere.
E’ di enorme importanza che le nuove e future generazioni facciano proprio questo insegnamento nel modo più vivo e partecipato possibile, stimolando il dibattito, le domande, i “perché” indispensabili per la comprensione di quei tragici eventi.
ROSARIO BONACCORSIBuona sera prof,
Oggi,giovedi 27 gennaio ricorre una giornata molto importante nella storia dei nostri giorni,il "GIORNO DELLA MEMORIA".
In questa data,si celebra "l'abbattimento dei cancelli di Auschiwtz"(uno dei campi di concentramento)da parte delle truppe russe,nei confronti del popolo ebraico.
Il diario di Anna Frank,ricorda l' avvenimento attraversando i tratti piu importanti(di cui anche essa ne fu direttamnete protagonista).
A mio modesto giudizio e importantissimo ricordare questi avvenimenti,per evitare che in futuro si ripetano certi errori,ben vengano le tv,i giornali
e le radio che analizzano questi argomenti solo cosi possiamo commemorare la memoria di quelle povere vittime,ed evitare che in futuro si ripetano certi errori.
Davide Spinella
Giorno 27 Gennaio 1945, Il campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia, viene liberato dall'Armata rossa. Ed è da questo evento, che è stato scelto questo giorno, per ricordare ciò che è succeso, ovvero, lo sfruttamento e lo sterminio di circa 6 milioni di persone, di cui perlopiù brei, schiavi del potere nazista.
Fatto agghiacciante scagionato per ragioni futili ed insensate, che però ha portato dolori immensi. Uomini uguali a noi considerati inferiori per "razza", ma il razzismo è solo una convizione, proprio perchè non è assolutamente vero, dato che non può esistere una distinzione in razze della specie umana, perchè le nostre sono solo piccole differenze somatiche.
La giornata della memoria dunque dovrebbe servire non solo per tenerci al corrente del genocidio avvenuto allora, ma anche a sensibilizzarci affinchè atti del genere non si ripetano mai più e per far sì che vengano cancellati certi luoghi comuni, discriminazioni e pregiudizi inutili verso altre etnie, popoli o semplicemente, verso chi ci è estraneo.
“La memoria è il rombo sordo del tempo, scandisce il distacco dal passato per tentare di capire quel che è accaduto”.
E. LOEWENTHAL
Il giorno della memoria... Shoà
Il prossimo mercoledì, ricorrerà la decima Giornata della Memoria, un’occasione importante che ricorderà il tragico sterminio degli ebrei.
sabato 16 gennaio 2010
CANTIERE DI SCRITTURA DANTESCA VI CANTO
ANTONELLA SALVA'
Sordello da Goito fu uno tra i più importanti trovatori dell'Italia settentrionale (territorio di Mantova) ad ispirarsi nella sua attività poetica al modello provenzale adottando la lingua d'oc per i suoi versi.
La data di nascita è incerta ma deve verosimilmente porsi all'inizio del XIII secolo. Nacque da una famiglia appartenente alla piccola nobiltà essendo il padre miles presso il castello di Goito e la sua vita, trascorsa nelle corti più note dell'Europa, fu movimentata e intensa.
Dopo il periodo trascorso a Ferrara tra il 1220 e il 1221 presso la corte di Azzo VII d'Este dove conobbe Rambertino Buvalelli che gli fece da maestro per i primi rudimenti dell'arte poetica, Sordello si spostò a Verona presso il conte Rizzardo di Sambonifacio e risalgono a questo periodo (1225) i partimens con Guilhem de la Tor nei quali porta a difesa le tesi dell'amor cortese.
Nel 1226, sempre a Verona, fu a capo della spedizione per sottrarre la moglie di Rizzardo, Cunizza, su ordine dei fratelli della donna, Ezzelino III e Alberico da Romano.
Aveva nel frattempo sposato Otta degli Strasso, una donna di nobile famiglia di Ceneda e nel 1229 lasciò la corte dei da Romano e, in seguito a varie vicende politiche, si recò in Spagna, in Portogallo e in Provenza dove, dal conte Raimondo Berengario IV, fu insignito della nomina di cavaliere e gli furono donati alcuni feudi.
Nel 1245 morì il conte Raimondo e Sordello rimase con il suo erede Carlo I d'Angiò fino al 1265 quando, al suo seguito, poté ritornare in Italia dove nel 1269 gli vennero donati dallo stesso alcuni feudi abruzzesi e qui morì probabilmente in quello stesso anno.
Ci restano di lui 42 liriche di argomenti vari, con presenza significativa sia del tema amoroso, sia del tema politico, e un poemetto didascalico, Ensenhamen d'onor (Precetti d'onore). Il testo più famoso è il Compianto in morte di ser Blacatz, elogio funebre di un signore provenzale che proteggeva i trovatori, scritto intorno al 1237 in stile satirico.
ENJAMBEMENT:
vv.13/14: da le braccia / fiere di Ghin di Tacco
vv.19/20: e l’anima divisa / dal corpo
vv.25/26: da tutte quante / quell’ombre
vv.58/59: posta / sola soletta
vv. 85/86: da le prode / le tue marine
vv.123/124: tutte piene / son di tiranni
vv.142/143: tanto sottili / provvedimenti
APOSTROFE:
v. 75: Ahi serva Italia, di dolore ostello
v.91: Ahi gente che dovresti esser devota
v.97: O Alberto tedesco ch’abbandoni
v.127: Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
ANASTROFE:
v.25: libero fui
SIMILITUDINI:
v.66: a guisa di leon quando si posa
v.148: …somigliante a quella inferma
METAFORE:
v.86: …. e poi ti guarda in seno
v.90: e lasciar seder Cesare in la sella
v.95: per non essere corretta da li sproni,
v. 96: poi che ponesti mani a la predella
v.99: e dovresti inforcar li suoi arcioni
v.105: che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto
v.129: ….. giustizia in cuore, e tardi scocca
v.130: per non venir sanza consiglio a l’arco
sineddoche : (QUI LA PARTE PER TUTTO):
v. 96 : la predella (parte della briglia)
Come già nell'Inferno, il sesto canto è dedicato al tema politico.
Mentre nel sesto canto dell'Inferno Dante presenta, in un breve dialogo con Ciacco, Firenze divisa in fazioni e oggetto delle mire di papa Bonifacio VIII, il sesto canto del Purgatorio allarga la considerazione all'Italia tutta, vista per di più in rapporto con le due massime istituzioni, Impero e Chiesa.
Nucleo fondante di tutto il sesto canto del Purgatorio è l'invettiva all'Italia, la più lunga della Commedia nelle sue venticinque terzine. In questa, pronunciata dallo stesso Dante in seguito all'incontro con Sordello da Goito, l'Italia è paragonata ad una nave priva di guida (questo paragone è presente anche nel De Monarchia e nelle Epistole) e ad un cavallo privo di cavaliere (citando il Convivio) in quanto l'Imperatore non si cura di essa concentrando tutta l'attenzione sulla Germania. Per questo motivo sulla stirpe imperiale deve scendere la pena divina. Dante coglie l'occasione per attaccare anche la Chiesa, che interferisce nelle vicende politiche più che occuparsi della materia spirituale che dovrebbe competerle.
Alla fine dell'invettiva Firenze viene citata come esempio di corruzione e povertà morale.
Non bisogna trascurare il fatto che l'apostrofe inizia quasi alla metà del canto, dopo una preparazione graduale: dalla scena affollata dei morti violentemente che chiedono di essere ricordati, alla spiegazione dottrinale affidata a Virgilio, alla raffigurazione di un misterioso ed altero personaggio, all'improvviso incontro tra due "concittadini" divisi da circa tredici secoli di storia e tuttavia uniti dal semplice nome della loro città.
L'invettiva all'Italia (nonché al papa, all'imperatore, a Firenze) trae il suo vigore espressivo dall'uso intenso di figure retoriche: dalle numerose metafore che connotano l'Italia, alle esclamazioni, alle anafore dei vv. 106,109,112,115 e 130,133. Frequenti anche le personificazioni (Italia, Roma, Firenze) sulle quali si innestano domande o esortazioni. Evidente l'uso dell'ironia e del sarcasmo nelle terzine dedicate a Firenze, ma il canto, con l'immagine dell'inferma che cerca invano di calmare le sue sofferenze, si chiude su una nota dolente.
Vieni a vedere come la gente d'Italia si vuol bene! e se non vi è alcun sentimento di pietà verso di noi che ti possa commuovere, vieni a cogliere la vergogna del discredito (che ti sei procurato con il tuo disinteresse). O Cristo che sulla terra fosti per noi crocifisso, se ciò mi è permesso, ti chiedo: la tua giustizia si è rivolta altrove? Oppure nell'abisso della tua sapienza permetti, tutto questo in preparazione di qualche bene totalmente inaccessibile al nostro intelletto? Poiché le città d'Italia sono tutte piene di tiranni, e qualsiasi villano che diventa capo di una fazione assume di fronte all'impero atteggiamento di un Marcello (appartenente al partito pompeiano e console nel 50 a. C., fu acerrimo nemico di Cesare). Tu Firenze mia, puoi proprio esser lieta di questa digressione che non ti sfiora, grazie al tuo popolo che s'ingegna per il tuo bene. Molti (in altre città) hanno in cuore il senso della giustizia, eppure lentamente si manifesta, per non essere espresso sconsideratamente; invece il tuo popolo ha sempre la giustizia sulle labbra. Molti (altrove) rifiutano le cariche pubbliche; invece il tuo popolo senza essere chiamato risponde sollecito, grìdando: « Io sono pronto ad accettare il grave peso delle cariche!» Ora rallegrati, perché ne hai proprio motivo, tu sei ricca, tu sei in pace, tu sei saggia! I fatti dimostrano la verità che io affermo. Atene e Sparta, che fecero le antiche leggi ed ebbero una civiltà tanto elevata, riguardo a una ordinata vita civile fecero appena un insignificante tentativo in confronto di te che decidi provvedimenti tanto ingegnosi e fragili, che quello che escogiti in ottobre non giunge alla metà di novembre. Quante volte, in questi ultimi anni hai cambiato leggi, moneta, cariche e costumi e hai rinnovato (secondo il prevalere delle fazioni e il susseguirsi degli esili) i tuoi cittadini! E se ti ricordi bene e non sei completamente cieca, ti scoprirai somigliante a quell'inferma che non riesce a trovare riposo nemmeno giacendo sulle piume, e voltandosi e rivoltandosi sui fianchi, cerca invano di fare schermo al suo dolore.Ci avviammo verso di lei: o anima lombarda, come te ne stavi altera e sdegnosa e com'eri dignitosa e grave nel muovere i tuoi occhi! Essa non ci diceva nulla, ma ci lasciava avanzare, seguendoci solo con lo sguardo attento come un leone quando si riposa. Soltanto Virgilio le si avvicinò, pregandola che ci indicasse la strada migliore per salire; ed essa non rispose alla sua domanda,ma chiese notizie sulla nostra patria e sulla nostra condizione; e mentre la mia dolce guida cominciava a dire: « Mantova ... », quell'ombra, tutta solitaria e raccolta in se stessa, si levò dal luogo dove stava prima protendendosi verso di lui, dicendo: « O mantovano, io sono Sordello, della tua stessa terra! »; e si abbracciavano l'un l'altro. Ahi, schiava Italia, albergo di dolori, nave senza pilota nel mezzo d'una immane tempesta, non più signora di popoli, ma luogo di turpitudine! Quell'anima nobile lì, nel purgatorio, fu così pronta a far festa al suo concittadino, solo al sentire il dolce suono del nome della sua terra; mentre ora dentro i tuoi confini non sanno stare senza guerra i tuoi abitanti, e quelli che sono chiusi entro le mura e il fossato (d'una stessa città) si dilaniano l'un l'altro. Guardati, infelice, intorno cominciando dalle coste del mare che ti circonda, e osserva poi il tuo territorio interno, e vedi se ti riesce di trovare una regione sola che goda pace. A che è servito che Giustiniano ti abbia aggiustato il freno del vivere civile (con le leggi) se ora non hai in sella l'imperatore (che fa osservare le leggi)? Senza questo freno oggi la tua vergogna sarebbe minore (perché un popolo senza leggi non è colpevole della sua anarchia). Ahi, gente di Chiesa, che dovresti dedicarti solo a opere di pietà, e lasciar sedere l'imperatore sulla sella (a esercitare l'autorità civile), se comprendi rettamente quello che Dio ti ha prescritto, osserva come questa cavalla è diventata ribelle per il fatto che non è guidata e domata dagli speroni dell'imperatore, da quando hai preso in mano la sua briglia. O Alberto d'Asburgo, che abbandoni a se stessa questa cavalla divenuta indomita e selvaggia, mentre dovresti inforcare i suoi arcioni, scenda dal cielo una giusta punizione sopra te e la tua stirpe, e sia una punizione inaudita e chiara, e tale che il tuo successore ne concepisca timore! Perché tu e il padre tuo, tutti presi dalla cupidigia degli interessi della Germania, avete tollerato che l'Italia, il giardino dell'impero, fosse devastata. Vieni a vedere, o uomo senza interesse, i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i Filippeschi: quelli ormai vinti, e questi pieni di timore! Vieni, o uomo crudele, vieni a vedere le umiliazioni e le dìfficoltà della tua nobiltà, e poni rimedio alla sua rovina; e vedrai Santafiora come è tranquilla! Vieni a vedere la tua Roma che piange nella sua solitudine e vedovanza, e giorno e notte invoca: « 0 mio re, perché mi abbandoni? »
GIADA GIUFFRIDA
1) Sordello da Goito. Nato intorno all’anno 1200 a Goito, nei pressi di Mantova, fu un importante trovatore italiano. Apparteneva a una famiglia della piccola nobiltà. Soggiornò alla corte estense presso Azzo VII, poi si spostò a Verona, in Spagna e dal 1223 visse stabilmente in Provenza. Qui assunse un ruolo di rilievo, tanto che divenne consigliere del conte Raimondo Berengario IV; e scrisse le sue liriche principali, divenendo il trovatore più illustre della sua epoca: del resto, aveva iniziato già prima a ricorrere a quella lingua (l’uso letterario dei volgari italiani, all’epoca, era ancora agli albori). Nel 1265 seguì Carlo D’angiò nella spedizione militare in Italia. Da Carlo ricevette, come ricompensa per la sua fedeltà, feudi in Piemonte e in Abruzzo. Morì nel 1269. 2) Ciacco nel canto infernale parla della storia contemporanea di Firenze. La città è scenario di divisioni, risse, instabilità e continui capovolgimenti: oltre alle lotte interne, agiscono su di esse forze esterne ( in particolare Bonifacio VIII ). La diagnosi della corruzione fiorentina non è però tanto politica (Dante mostra la stessa durezza con il partito degli avversari e il proprio popolo), quanto morale. A condannare la città sono tre peccati capitali: la superbia, cioè la smania di primeggiare; l’invidia, cioè l’odio per i concittadini; l’avidità, cioè il desiderio di arricchirsi a danno di altri. Tutti questi peccati rivelano l’incapacità di pensare al bene pubblico, preferendogli interessi privati. Dal resto, alcuni interpreti individuano in essi gli stessi peccati incarnati dalle tre fiere della selva oscura: il che farebbe di Firenze solo un caso, sebbene emblematico e particolarmente doloroso per Dante, del traviamento in cui tutta l’umanità è caduta. Invece nel canto VI del purgatorio Dante espone le cause della decadenza italiana: abbandonata dall’imperatore e in balia di lotte interne, dello strapotere della Chiesa, della confusione di leggi e costumi. In una prima apostrofe, egli invita Alberto I d’Austria, colpevole di disinteresse, a venir nella penisola per vederne il disastro; in una seconda si rivolge a Firenze, sarcasticamente portata a esempio di questa drammatica crisi. Il quadro tracciato è così cupo, da sfiorare toni apocalittici; eppure, è realistico il quadro di dande? La sua ottica imperiale e aristocratica coglie elementi effettivi di crisi, insistendo sugli aspetti morali; ma al tempo stesso, demonizza l’evoluzione dei comuni italiani, la cui prosperità era reale, anche se comportava conflitti interni alle città. Da un lato, Dante ha un’ideologia conservatrice, che rifiuta le nuove istituzioni e richiama alle autorità antiche: l’Impero, il codice di Giustiniano, il Vangelo che vieta alla Chiesa di esercitare un potere mondano, la vecchia nobiltà feudale, i costumi del passato. Dall’altro, egli propone l’utopia di un mondo ordinato e unitario, in cui il potere centrale fondato sulla legge (ma anche sul volere di Dio) conduca gli uomini alla felicità. Soprattutto difende un principio moderno e antimedievale: la fine della teocrazia, cioè della subordinazione del potere civile a quello religioso. L’Impero era entrato in una crisi da cui non sarebbe uscito; ma l’idea di grandi monarchie nazionali andava prendendo piede in altri paesi, seppure su basi diverse da quelle volute da Dante. L’episodio di Bordello è scandito da varie apostrofi, tutte pronunciate da Dante autore: all’Italia (vv.76-90), agli uomini di Chiesa (vv. 91-96), all’imperatore Alberto (vv. 97-117), a Dio (vv.118-126), a Firenze (vv. 127-151). Quella all’imperatore è scandita dall’anafora, con alcune variazioni per renderla conciliata e sottolineata dall’allitterazione ( Vieni a veder….); e si aggiunge la ripetizione di “tu” ai vv. 136-137. La veste retorica è molto ricca e curata: abbondano le metafore ( in particolare, le tre diverse ai vv. 76-78; quella equestre dei vv. 88-99; quella dell’arco ai vv. 130-131; quella del filare ai vv. 142-144), le similitudini (vv. 149-151), le antonomasia ( Cesare ai vv. 92-114; Marcel al v.125); tutte tese a innalzare il tono; mentre l’ironia e il sarcasmo esprimono lo sdegno del poeta. Va segnalato anche il lessico, che oscilla fra punte nobili e letterarie e punte basse, addirittura volgari. Ne viene un modello di poesia insieme satirica e sostenuta, che parte dalle risorse dello stile comico per costruire un discorso più complesso.
giovedì 14 gennaio 2010
PER XENIA
Tkachenko Ksenia Vladimovna proviene da una scuola in Russia (mobilità studentesca all’estero organizzata da Intercultura).
Domani potrai iniziare la lettura del romanzo di Niccolò Ammaniti dal titolo "TI PRENDO E TI PORTO VIA" , tale lettura è prevista dalla programmazione elaborata dal Consiglio di classe .
A domani!
prof
lunedì 11 gennaio 2010
CANTO VI PURGATORIO
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l'altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non s'arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.
Quiv'era l'Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l'altro ch'annegò correndo in caccia.
Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.
Vidi conte Orso e l'anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com'e' dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr'è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.
Come libero fui da tutte quante
quell'ombre che pregar pur ch'altri prieghi,
sì che s'avacci lor divenir sante,
io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m'è 'l detto tuo ben manifesto?».
Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s'avvalla
perché foco d'amor compia in un punto
ciò che de' sodisfar chi qui s'astalla;
e là dov'io fermai cotesto punto,
non s'ammendava, per pregar, difetto,
perché 'l priego da Dio era disgiunto.
Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto.
Non so se 'ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».
E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m'affatico come dianzi,
e vedi omai che 'l poggio l'ombra getta».
«Noi anderem con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma 'l fatto è d'altra forma che non stanzi.
Prima che sie là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ' suoi raggi tu romper non fai.
Ma vedi là un'anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne 'nsegnerà la via più tosta».
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicea alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e de la vita
ci 'nchiese; e 'l dolce duca incominciava
«Mantua...», e l'ombra, tutta in sé romita,
surse ver' lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l'un l'altro abbracciava.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Quell'anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode
di quei ch'un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s'alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz'esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch'abbandoni
costei ch'è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!
Ch'avete tu e 'l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d'i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com'è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m'accompagne?».
Vieni a veder la gente quanto s'ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m'è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l'abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l'accorger nostro scisso?
Ché le città d'Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l'arco;
ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I' mi sobbarco!».
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
l'antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch'a mezzo novembre
non giugne quel che tu d'ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
Vi propongo un link utile per lo studio di questo canto particolarmente
importante: CANTO VI
-PARAFRASI
-FIGURE RETORICHE
SPUNTI PER LA RIFLESSIONE
1.Ricostruite il profilo storico del trovatore provenzale Sordello da Goito.
2.Confrontate l'invettiva finale contro Firenze con la spietata analisi della vita
politica della città condotta nel canto infernale di Ciacco
3. Quali sarcastiche osservazioni il poeta rivolge a Firenze nel finale del Canto?
4.Quali distinte accuse Dante rivolge all'imperatore e ai principi italiani?
buon lavoro!