E. MONTALE- IRMA BRANDEIS |
http://www.900letterario.it/focus-letteratura/nel-nome-di-clizia-mottetti-montale/
Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa poi ebbe anche da noi, a un giuoco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera – oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione – spinta. […] Anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia. […] Il nuovo libro non era meno romanzesco del primo».(E. Montale, Intervista immaginaria, in Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1976)
Mottetti costituisce la seconda sezione di Le Occasioni di Montale. Il titolo allude alla “poesia d’occasione”, nel senso che in questo periodo si infittiscono, nell’opera di Montale, i riferimenti a persone, eventi, circostanze della vita privata e pubblica. Eppure il poeta ha sempre rifiutato di precisare le circostanze biografiche della sua ispirazione. In una lettera del 1966, a un amico critico che gli chiede chiarimenti, scrive: «La mia poesia non è vera, non è vissuta, non è autobiografica, non serve identificare questa o quella donna…».
Al centro delle Occasioni, dunque, si trova una serie di ventuno brevi componimenti dedicati a una donna, cantata con il senhal di Clizia, presenza indefinita, con il riferimento al mito ovidiano della ninfa innamorata di Apollo-Sole che fu trasformata in girasole, il fiore che si volge costantemente a cercare la luce del sole: «lla suum, quamvis radice tenetur/ vertitur ad Solem, mutataque servat amorem» (Ovidio, Metamorfosi, IV, v. 262 e sgg.). Clizia, colei che (si) inclina (gr. klitòs) ovvero, secondo la polisemia del verbo latino, colei che si piega, si muta e ha dedizione verso qualcosa. Nei Mottetti, a lei dedicati, la distanza si fa smisurata, quasi astrale: Clizia, creatura di luce, porta in dono d’amore un segno del mondo autentico. Quando il poeta avverte la sua presenza, e anche quando crede di essere ingannato “Altro era il suo stampo”, egli esprime il desiderio di affidarsi a lei perché lo metta in contatto con quel mondo misterioso, se esiste. E non conta tanto il dono (di cui il poeta non è mai certo) quanto il desiderio di quel segno. Certo, il segno che si compone nell’aria del mattino e nelle cose, può essere riconosciuto solo dai sensi dell’innamorato. Solo colui che sente il passo di Clizia nel pulsare del proprio sangue può percepire in segreto il fenomeno della neve che rispetta il rumore di quei passi, e quello dell’ombra della palma che s’innerva/ sul muro, cioè che «si dirama come un fascio di luce nel tessuto del proprio corpo» (D. Isella). Conta che la donna lo guidi a sfidare il vuoto, il tedio, l’arduo nulla: la verità è nella sfida che si compie in virtù dell’amore di Clizia.
Al centro delle Occasioni, dunque, si trova una serie di ventuno brevi componimenti dedicati a una donna, cantata con il senhal di Clizia, presenza indefinita, con il riferimento al mito ovidiano della ninfa innamorata di Apollo-Sole che fu trasformata in girasole, il fiore che si volge costantemente a cercare la luce del sole: «lla suum, quamvis radice tenetur/ vertitur ad Solem, mutataque servat amorem» (Ovidio, Metamorfosi, IV, v. 262 e sgg.). Clizia, colei che (si) inclina (gr. klitòs) ovvero, secondo la polisemia del verbo latino, colei che si piega, si muta e ha dedizione verso qualcosa. Nei Mottetti, a lei dedicati, la distanza si fa smisurata, quasi astrale: Clizia, creatura di luce, porta in dono d’amore un segno del mondo autentico. Quando il poeta avverte la sua presenza, e anche quando crede di essere ingannato “Altro era il suo stampo”, egli esprime il desiderio di affidarsi a lei perché lo metta in contatto con quel mondo misterioso, se esiste. E non conta tanto il dono (di cui il poeta non è mai certo) quanto il desiderio di quel segno. Certo, il segno che si compone nell’aria del mattino e nelle cose, può essere riconosciuto solo dai sensi dell’innamorato. Solo colui che sente il passo di Clizia nel pulsare del proprio sangue può percepire in segreto il fenomeno della neve che rispetta il rumore di quei passi, e quello dell’ombra della palma che s’innerva/ sul muro, cioè che «si dirama come un fascio di luce nel tessuto del proprio corpo» (D. Isella). Conta che la donna lo guidi a sfidare il vuoto, il tedio, l’arduo nulla: la verità è nella sfida che si compie in virtù dell’amore di Clizia.
Ecco il segno; s’innerva
sul muro che s’indora:
un frastaglio di palma
bruciato dai barbagli dell’aurora.
Il passo che proviene
dalla serra sì lieve,
non è felpato dalla neve, è ancora
tua vita, sangue tuo nelle mie vene.
Clizia ha gli attributi contrastanti del fuoco e del gelo (suggeriti dal significato del suo nome tedesco, Brand-fuoco (letteralmente: incendio), Eis-ghiaccio). L’identità di questa donna dagli occhi di acciaio è rimasta a lungo oscura. Con il tempo Clizia è stata identificata con Irma Brandeis, giovane ebrea americana studiosa di Dante, colta, poliglotta e cosmopolita, conosciuta nel 1933 quando lei era venuta a Firenze per conoscere a fondo la lingua del sommo poeta. Montale si era trasferito a Firenze nel 1927; lavorò prima presso la casa Editrice Bemporad, poi come direttore del prestigioso Gabinetto Viesseux.
Tra i due nacque un’intensa e combattuta relazione, interrotta nel 1938 quando lei si vide costretta a far ritorno negli Stati Uniti per sottrarsi alle leggi razziali e, nel contempo, Montale venne licenziato dal Gabinetto Viesseux perché non iscritto al partito fascista. Una storia, quella tra Montale e Irma Brandeis, dopo il suo ritorno in America soprattutto epistolare. Fantasma in bilico tra assenza e presenza, dunque, figura della separazione e dell’addio, messaggera astrusa e lampeggiante di un’improbabile salvezza, la protagonista di Nuove stanze e di tutta la serie deiMottetti identificata con il suo nome più noto, Clizia, solo in una nota della Bufera. Per vent’anni è rimasta chiusa in una cartella di cartone nella cassaforte dell’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux. Fu la stessa Brandeis, nel 1983, a consegnare le lettere ad Alessandro Bonsanti, con la richiesta che non fossero rese pubbliche prima di vent’anni. Poesie, biglietti e fogli sparsi aiutano dunque a ricostruire una delle storie d’amore più tormentate del Novecento italiano. Irma Brandeis è diventata davvero, adesso, come la ninfa della leggenda, un girasole sempre più lontano e dolente.
«Portami il girasole, ch’io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino… – aveva scritto Montale – portami il girasole impazzito di luce».
Per il poeta Montale la beatificazione dell’assente è fonte della sua poesia più alta e nell’elaborazione del mito, Clizia si connette simbolicamente al tema della salvezza non solo personale ma si fa anche emblema della salvezza dalla violenza e dei valori laici della cultura e dello spirito. Il forzato allontanamento di Irma Brandeis dall’Italia diviene, in chiave metafisica, il corrispettivo del sacrificio di Cristo che, morendo, può garantire una salvezza per tutti (La primavera hitleriana). Come Cristo, con il suo sacrificio la donna «si distrugge/ in lui per tutti» (vv. 37-38). La sua lontananza assume quindi una valenza paradossalmente positiva. Attraverso la mediazione di questa donna, sembra dunque assumere nuove connotazioni la fiducia già presente nel primo Montale di “un’altra orbita”, di una dimensione esistenziale diversa e possibile da raggiungere solo per pochi. È Montale stesso ad aver usato nel 1961 l’espressione visiting angel e in queste vesti è raffigurata Clizia, in particolare nel primo mottetto, Ti libero la fronte dai ghiaccioli, scritto probabilmente nel gennaio del 1940 e apparso in rivista nello stesso anno e in volume nella seconda edizione delle Occasioni. Clizia diviene così la nuova Beatrice e assume connotati soprannaturali: è la donna –angelo che scende dalle «alte nebulose» a visitare il poeta. Ma potremmo trovare che la somiglianza è tanto suggestiva proprio perché apparente, e invece di nascondere, mette in luce l’assoluta novità del miracolo che qui si compie. Clizia è diversa dalla sublime Beatrice, venuta «da cielo in terra a miracol mostrare» (Vita Nova , XXVI,” Tanto gentile e tanto onesta pare..”). Il suo è un cielo d’ alte nebulose, turbato dai cicloni. Insomma è il cielo degli uomini e vediamo una donna-angelo avvicinata, nelle qualità e nella sorte, alla condizione umana. Per questo appare più viva la sua grazia e più credibile il suo messaggio.
Tra i due nacque un’intensa e combattuta relazione, interrotta nel 1938 quando lei si vide costretta a far ritorno negli Stati Uniti per sottrarsi alle leggi razziali e, nel contempo, Montale venne licenziato dal Gabinetto Viesseux perché non iscritto al partito fascista. Una storia, quella tra Montale e Irma Brandeis, dopo il suo ritorno in America soprattutto epistolare. Fantasma in bilico tra assenza e presenza, dunque, figura della separazione e dell’addio, messaggera astrusa e lampeggiante di un’improbabile salvezza, la protagonista di Nuove stanze e di tutta la serie deiMottetti identificata con il suo nome più noto, Clizia, solo in una nota della Bufera. Per vent’anni è rimasta chiusa in una cartella di cartone nella cassaforte dell’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux. Fu la stessa Brandeis, nel 1983, a consegnare le lettere ad Alessandro Bonsanti, con la richiesta che non fossero rese pubbliche prima di vent’anni. Poesie, biglietti e fogli sparsi aiutano dunque a ricostruire una delle storie d’amore più tormentate del Novecento italiano. Irma Brandeis è diventata davvero, adesso, come la ninfa della leggenda, un girasole sempre più lontano e dolente.
«Portami il girasole, ch’io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino… – aveva scritto Montale – portami il girasole impazzito di luce».
Per il poeta Montale la beatificazione dell’assente è fonte della sua poesia più alta e nell’elaborazione del mito, Clizia si connette simbolicamente al tema della salvezza non solo personale ma si fa anche emblema della salvezza dalla violenza e dei valori laici della cultura e dello spirito. Il forzato allontanamento di Irma Brandeis dall’Italia diviene, in chiave metafisica, il corrispettivo del sacrificio di Cristo che, morendo, può garantire una salvezza per tutti (La primavera hitleriana). Come Cristo, con il suo sacrificio la donna «si distrugge/ in lui per tutti» (vv. 37-38). La sua lontananza assume quindi una valenza paradossalmente positiva. Attraverso la mediazione di questa donna, sembra dunque assumere nuove connotazioni la fiducia già presente nel primo Montale di “un’altra orbita”, di una dimensione esistenziale diversa e possibile da raggiungere solo per pochi. È Montale stesso ad aver usato nel 1961 l’espressione visiting angel e in queste vesti è raffigurata Clizia, in particolare nel primo mottetto, Ti libero la fronte dai ghiaccioli, scritto probabilmente nel gennaio del 1940 e apparso in rivista nello stesso anno e in volume nella seconda edizione delle Occasioni. Clizia diviene così la nuova Beatrice e assume connotati soprannaturali: è la donna –angelo che scende dalle «alte nebulose» a visitare il poeta. Ma potremmo trovare che la somiglianza è tanto suggestiva proprio perché apparente, e invece di nascondere, mette in luce l’assoluta novità del miracolo che qui si compie. Clizia è diversa dalla sublime Beatrice, venuta «da cielo in terra a miracol mostrare» (Vita Nova , XXVI,” Tanto gentile e tanto onesta pare..”). Il suo è un cielo d’ alte nebulose, turbato dai cicloni. Insomma è il cielo degli uomini e vediamo una donna-angelo avvicinata, nelle qualità e nella sorte, alla condizione umana. Per questo appare più viva la sua grazia e più credibile il suo messaggio.
Ti libero la fronte dai ghiaccioliche raccogliesti traversando l’ altenebulose; hai le penne laceratedai cicloni, ti desti a soprassalti.Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolol’ombra nera, s’ostina in cielo un solefreddoloso; e l’ alte ombre che scantonanonel vicolo non sanno che sei qui.
Questa delicata poesia d’amore e insieme di angoscia è uno dei tanti esempi di altissimo valore nello sviluppo dell’intera poesia italiana del Novecento. La ricerca di musicalità, come sempre in Montale, è particolarmente attenta ed efficace. Ma è Irma Brandeis a far risuonare una nuova musica nelle corde di Montale con una frantumazione di versi caratterizzata da numerose assonanze interne e parallelismi. Il poeta è l’unico a sapere della presenza della donna: l’unico a viverla e a conoscerla, custode partecipe di un segreto e di un tesoro che ne sanciscono la superiorità rispetto alle altre ombre e al loro e vile “scantonare”. In ogni caso, la poesia si costruisce attorno al tema dell’incontro prezioso e clandestino, delle cure prestate e ricevute, oscilla tra l’angoscia della prigionia del poeta e il sollievo della fuga, del miracolo inaspettato. Una certa “oscurità” di Montale potrebbe essere invece frutto di una scelta precisa del poeta che rinvia alle suggestioni della poesia di Paul Verlaine (promotore del motto «de la musique avant toute chose») e all’influenza della Metafisica di tre grandi artisti Giorgio De Chirico, Carlo Carrà e Alberto Savinio. La pittura metafisica infatti, con le sue immagini enigmatiche, ambigue e misteriose, aspira a superare i limiti del visibile e della realtà ma è assolutamente priva di ambizioni conoscitive: gli enigmi che propone sono destinati a rimanere irrisolti, ma non per questo producono angoscia, paura e frustrazione. Le opere di De Chirico e di Savinio sono intime e filosofiche, ricche di suggestioni simboliche e letterarie, mentre l’ex futurista Carrà è maggiormente interessato a problematiche più strettamente formali. Montale, in questa seconda raccolta, mostra ancora di seguire la poetica degli oggetti, che però non caricano più la natura e il paesaggio marino della Liguria di una valenza simbolica (come gli stessi “ossi di seppia”), ma sono più di frequente frutto di lavoro artigianale o tecnico, essendo presente un indeterminato paesaggio urbano, popolato da uomini-automi. Una poetica di oggetti e non di parole in cui si avverte la consonanza con la poesia di T. S. Eliot e di autori secenteschi come l’inglese John Donne, o anche di Robert Browning, di Charles Baudelaire e di altri moderni.
Addii, fischi nel buio, cenni, tossee sportelli abbassati. È l’ora. Forsegli automi hanno ragione. Come appaionodai corridoi, murati!. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .– Presti anche tu alla fiocalitania del tuo rapido quest’orridae fedele cadenza di carioca?
Questo mottetto (1939), appartiene alle poesie aggiunte alla seconda edizione delle Occasioni. Sullo sfondo convulso di una stazione di notte, si compie qualcosa di doloroso, forse una separazione; viene il pensiero di arrendersi a un modo di vivere insensato da automi. Nella seconda strofa appare un tentativo di riscattarsi stabilendo un legame con una persona lontana: ma è solo una speranza, sottolineata dal tono interrogativo, una speranza che ancora una volta cerca il miracolo nella scena quotidiana, in sé banale.
I Mottetti non si aprono con un suono bensì con un rumore; quello del primo mottetto Lo sai debbo riperderti ci introduce nella tensione irrisolta tra il personaggio che dice «io» e il fantasma femminile, labile e sfuggente, evocato dal «tu» che fin dalla sua entrata in scena si presenta senza la minima connotazione emotiva, chiuso nell’altera consapevolezza della loro distanza («Lo sai: debbo riperderti e non posso»), che concede solo incerti barlumi del «certo suo fuoco» (per citare il balcone). E l’unica certezza che rimane al poeta è allora necessariamente quella dell’inferno («E l’inferno è certo»), nella quale il testo trova la sua conclusione, lapidaria e definitiva, contro l’ipotesi sempre più evanescente di una sempre più improbabile salvezza. Il verso si spezza sull’oggetto della ricerca fallita: te (e l’ossitono sembra appuntire la scheggia dolorosa).
I Mottetti non si aprono con un suono bensì con un rumore; quello del primo mottetto Lo sai debbo riperderti ci introduce nella tensione irrisolta tra il personaggio che dice «io» e il fantasma femminile, labile e sfuggente, evocato dal «tu» che fin dalla sua entrata in scena si presenta senza la minima connotazione emotiva, chiuso nell’altera consapevolezza della loro distanza («Lo sai: debbo riperderti e non posso»), che concede solo incerti barlumi del «certo suo fuoco» (per citare il balcone). E l’unica certezza che rimane al poeta è allora necessariamente quella dell’inferno («E l’inferno è certo»), nella quale il testo trova la sua conclusione, lapidaria e definitiva, contro l’ipotesi sempre più evanescente di una sempre più improbabile salvezza. Il verso si spezza sull’oggetto della ricerca fallita: te (e l’ossitono sembra appuntire la scheggia dolorosa).
Lo sai: debbo riperderti e non posso.Come un tiro aggiustato mi sommuoveogni opera, ogni grido e anche lo spirosalino che straripadai moli e fa l’oscura primaveradi Sottoripa.Paese di ferrame e alberaturea selva nella polvere del vespro.Un ronzio lungo viene dall'aperto,strazia com’unghia i vetri. Cerco il segnosmarrito, il pegno solo ch’ebbi in graziada te.E l’inferno è certo.
Le Occasioni si presentano come un romanzo d’amore fornito di due sensi, l’uno letterale e l’altro allegorico: la donna amata da Montale potrebbe essere la poesia, attraverso la quale si manifesta la divinità. L’incontro con Clizia è raro e imprevisto. Costituisce l’esperienza del divino che è permesso agli uomini; il suo abbandono ci fa sprofondare nuovamente in quel perenne “inferno” che è la terra.
© Maria Allo