La produzione letteraria di Alfieri è vasta e varia. Il suo successo e la sua fama sono affidati soprattutto alle tragedie, in particolare al Saul e alla Mirra.Ne compose ventuno, tutte imperniate sul tema del conflitto con la realtà, ovvero sulla figura dell'eroe della libertà che lotta contro la tirannide.Fanno eccezione le ultime due, considerate i suoi capolavori, in cui il conflitto è tutto interno ai personaggi :Saul (1782),ispirata al biblico re di Israele , e Mirra (1786),che ha per tema la passione incestuosa.I protagonisti sono figure d'eccezione ed eroi chiamati a scegliere tra una morte onorevole o una vita spregevole.Alcuni sono tratti dal mito e dalla storia greca , altri dalla storia moderna , come in Filippo II di Spagna , scelto quale emblema del tiranno e dell'oppressione politica; altri ancora sono tratti dalla storia romana, eroi della libertà. Scritte in endecasillabi sciolti e suddivise in cinque atti,le tragedie alfieriane rispettano le tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione.Alla tragedia Alfieri assegnò la funzione civile di suscitare odio per il tiranno e amore per la libertà.
Non
nel Parini, ma nell'Alfieri, afferma il Croce, è il primo
evidente segno di un rinnovamento nella letteratura italiana.
L'individualismo esasperato e la violenza estrema delle passioni che
sono alla base della sua ideologia e del suo atteggiamento di fronte
alla vita contribuiscono a fare dell'Alfieri uno scrittore
"protoromantico", assai vicino ad analoghe correnti e
figure delle altre letterature europee; mentre lo tiene al di qua di
un'autentica spiritualità romantica l'assenza di un senso
religioso della vita e di un concreto interesse per le vicende
particolari della storia. La tragedia alfierana è tutta
alimentata dal furore della passione e da una inflessibile energia di
propositi: di qui il suo stile che appare come il rovesciamento del
linguaggio metastasiano, la sua parola che cade sulla pagina non come
suono ma come azione; di qui, infine, il carattere essenzialmente
oratorio più che intimamente poetico dell'opera
dell'Alfieri.
È stato talvolta segnato
l'inizio della nuova letteratura italiana nel Parini; ma il Parini è
di mente e d'animo uomo del Settecento, del periodo razionalistico e
delle riforme; e settecentesca sebbene elegantissima è l'arte
sua, didascalica e ironica nei suoi toni maggiori, erotica e galante
nei minori. Il vero inizio (quando si guardi al moto delle idee e
alla qualità dei sentimenti) è in Vittorio Alfieri, che
tocca corde le quali vibreranno a lungo nel secolo decimonono, dal
Foscolo e dal Leopardi fino al Carducci: in Vittorio Alfieri, che io
non posso considerare se non come strettamente affine ai
contemporanei Sturmer und Drànger di Germania, i quali
s'ispirarono come lui alle pagine di Plutarco e risentirono profonda
l'efficacia del Rousseau, neanche a lui estranea. Al pari degli
Sturmer und Dranger, egli è fortemente individualista; e
individualismo è il suo amore per la libertà e il
frenetico odio alla tirannia, così indeterminato nel suo
contenuto politico, perché egli aborre con la stessa
risolutezza re e demagoghi e patrizi di repubblica (l'«oscena
libertà posticcia» di Venezia e le «sessanta
parrucche d'idioti» di Genova), e non cerca nella sua vita
altro stato, e non persegue nella sua arte altro ideale, che quello
del «liber'uomo», che possa cioè muoversi,
parlare, operare, attuare il proprio pensiero e la propria vocazione,
non oppresso e soffocato da veruna forza estranea, non contrastato o
impacciato da verun ostacolo. Come gli altri consapevoli o
inconsapevoli roussoviani, moventi all'assalto delle bastiglie
morali, le sue passioni sono estreme per violenza; e, quasi per dar
loro qualche lenimento, egli ama la solitudine, si abbandona con
voluttà alla malinconia, sente l'incanto degli spettacoli
naturali, delle montagne, delle acque, delle spiagge. Il freddo
intellettualismo, e Voltaire che lo rappresenta, gli ripugnano, e non
sopporta il «lepido stile», la leggiera e facile prosa
degli illuministi, ben adatta alla divulgazione, ma che per ciò
appunto a lui sembrava che prostituisse « la viril nostr'arte
». E se egli non è tutto Shakespeare, come erano i suoi
affini tedeschi, se presto intermise la lettura che aveva cominciata
di quel poeta, non è già perché esso non gli
piacesse, ma anzi perché gli piaceva troppo: «quanto più
(scrive) mi andava a sangue quell'autore, tanto più me ne
volli astenere»: cioè per non correre il rischio
d'imitarlo, e per serbarsi spontaneamente shakespeariano.
Si deve
dunque, a mio avviso, considerare l'Alfieri come un protoromantico:
il che non vuol dire propriamente romantico, come ora si è
preso il vezzo di chiamarlo, confondendo ben distinti periodi
spirituali. Del romantico all'Alfieri mancarono tratti essenziali, li
ansia religiosa sul fine e il valore della vita, l'interessamento per
la storia, e il compiacimento per gli aspetti particolari e
realistici delle cose. Anche la sua autobiografia sta sulla linea
delle confessioni alla Rousseau, ricca di passione e scarsa di senso
storico cosí rispetto al proprio tempo come alla sua vita
medesima. Di questo suo limite, e della incapacità a ritrarre
come diceva, «la vera e scalza triste natura nostra», la
patologia individuale e sociale, ebbe consapevolezza. «E
carmi e prose in vario stil finora lo scrissi, abil non dico,
ardimentoso; Storie non mai...». L'epica,
l'oratoria, la tragedia, la filosofia cioè le riflessioni
morali e politiche: ecco il suo campo: «Arti tutte divine; in
cui, ritratto L'uom qual potria pur essere, s'innalza Al ciel chi
scrive e il leggitore a un tratto».
Tale, all'incirca,
la collocazione dell'Alfieri nella moderna storia mentale e morale.
Ma per intendere e giudicare l'arte di lui, per risolvere il quesito,
anch'esso storico, del suo svolgimento estetico, bisogna farsi
presente la particolare conformazione di quell'anima. Perché
l'Alfieri, prima che poeta o al tempo stesso che poeta, era uomo di
passione cosí ardente («furore» è la parola
che più spesso torna nelle sue pagine) da rivolgersi diritto
all'azione e alla pratica, guidato da inflessibile fermezza di
proposito. Azione e pratica, la quale certamente non si attuava
altrove che nella parola e nelle carte, ma azione era nondimeno, se
tale è essenzialmente l'oratoria. L'anelito alla libertà
e l'aborrimento per la tirannia gli avevano ingenerato
nell'immaginazione un fantasma pauroso, il Tiranno, che non è
già un fantasma poetico, ma un incubo passionale, una sorta di
condensazione della più nera nequizia umana, che ha luogo in
un determinato individuo non si sa perché, se non forse per
incoercibile potere di attrazione e agglomeramento. Sono colpevoli i
suoi tiranni? Non si oserebbe affermarlo; o non più colpevoli,
certo; di chi ha la disgrazia di essere preso da un'infezione,
dall'idrofobia o dal tetano. «Ah forse voi dite il vero!»
- esclama il tiranno Timofane verso i suoi congiunti ed amici, che
procurano di richiamarlo ai doveri del cittadino -, «ma
non v'ha più detti, E sien pur forti, che dal mio proposto
Svolger possanmi omai. Buon cittadino Più non poss'io tornare.
A me di vita Parte or s'è fatta la immutabil, sola, Alta mia
voglia: di regnar... Fratello, tel dissi io già: corregger me
sol puoi Col ferro: invano ogni altro mezzo...». Un
altro di queí tiranni, Polifonte, nella Merope, - anche lui
non figlio, non sposo, non padre. «tutto tiranno», che
non vede «altro che regno», - sospira alla fine del primo
atto, stanco sotto il cumulo della sua propria ineluttabile
malvagità: «Oh quanta è impresa il mantenerti, o
trono!». Ad abbattere con un colpo di mazza ferrata il Tiranno,
tanto più a lui odioso perché - se lo rappresentava in
modo da dovergli riuscire necessariamente incomprensibile, l'Alfieri
costrusse la sua tragedia, nella nota forma, senza confidenti, senza
episodi, senza intermezzi di amori, scheletrica, precisa e rapida
come una macchina, tagliente col ben noto stile. Stile che ha
anch'esso del proposito, dell'intestamento; della fissazione; e
poiché egli non tollerava, come si è visto, la
lepidezza e la leggerezza della prosa illuministica, e poiché
gli moveva nausea la correlativa poesia cantarellante di quel tempo,
che in Italia, e non solo in Italia, era la metastasiana, il suo
dramma e lo stile di esso sono il rovescio violento del melodramma
metastasiano (come ebbero già a notare, credo pei primi, la
signora di Staél e Guglielmo Schlegel); e le cabalette e
ariette, con cui i suoi personaggi, al pari di quei del Metastasio,
palesano se stessi, stridono in digrignamenti di denti e suoni aspri
e rotti. E quando per avventura la sua ira si volge al sarcasmo e
all'irrisione, come nelle satire e nel Misogallo, il cipiglio tragico
si cangia in comico, ma resta pur sempre cipiglio: onde quel suo
coniare, nel furor comicus, vocaboli grotteschi, parole bizzarramente
composte o stranamente diminutive, e versi duri e ferrei non meno di
quelli delle tragedie.
Non è a dire che, ammesso quel
proposito, l'Alfieri non costruisca con vigore e sapienza; ma ciò
che costruisce non è nel suo intimo poesia, è oratoria
appassionata. Si ricorderanno le sue grandiose esortazioni e le
invettive, com'è quella di Virginio nella Virginia:
O
gregge infame di malnati schiavi; tanto il terror può
in voi? l'onore, i figli, tutto obbliate per amor di
vita? Odo, ben odo un mormorar sommesso; ma niun si muove.
Oh doppiamente vili! Sorte pari alla mia, deh! toccar possa a
ognun di voi; peggior, se v'ha: spogliati d'aver, d'onor, di
libertà, di figli, di spose, d'armi, e d'intelletto,
torvi possa il tiranno un dì fra strazio lungo la
non ben vostra orrida vita infame, ch'or voi serbate a cosí
infame costo... |
dove l'oratoria è
altamente concitata, e nondimeno quel personaggio non è
poetico. E perfette sono due delle sue tragedie, dal comune consenso
dei critici più lodate, il Bruto I e il Bruto II: due saldi
strumenti d'acciaio ben temprato e brunito: due di quei lucidi
spadoni da carnefice che si vedono nei musei. Ma la poesia non è
ordigno di acciaio. E le infinite e noiose dispute dei critici sul
metodo adatto o disadatto seguito dall'Alfieri nelle sue tragedie, e
le differenze notate verso il sistema greco o inglese e le
somiglianze col francese, sono fallaci o superflue. Il difetto, come
sempre in siffatti casi, non consiste nella tecnica tragica o altra
simile cosa immaginaria, ma nella sostanza poetica.