https://poetarumsilva.com/2017/11/16/maria-allo-jolanda-insana/
https://paoloottavianisweblog.wordpress.com/2017/11/16/maria-allo-su-jolanda-insana/
http://www.900letterario.it/poesia/jolanda-insana-voce-poetica-epigrammatica/
“La vita e la morte allato vanno”: la
poesia di Jolanda Insana come infinita Sciarra
amara
L’anno 1977 segna l’esordio tardivo
nella poesia della quarantenne Jolanda Insana, quando un gruppo di testi di Sciarra amara è presentato in un
quaderno collettivo della casa editrice Guanda, diretta da Giovanni Raboni, poeta
e militante nella critica in primis letteraria, ma anche teatrale e
cinematografica che, sbalordito alle schioppettate
linguistiche della “Pupara”, così scrive: «[…]
dietro o al di là della beffa, dietro o al di là dell’acuto, atroce sarcasmo, è
in ogni caso, e senza scherzi, questione di vita o di morte: ed è questo,
certo, a far circolare nella poesia della Insana, nel suo personalissimo
impasto di sostenutezza aulica e gesticolante allegria dialettale, nel suo
epigrammismo che, per naturale paradosso tende a farsi voce ininterrotta,
declamazione, poema, una vena di minacciosa, rabbrividente cupezza.» Jolanda
Insana è voce poetica italiana fuori
dal coro. Sciarra è termine siciliano che viene dall’arabo šarra e insieme letterario che significa rissa, «conflictus tra la
vita e la morte».
“io infuoco la posta / in questo gioco che mi/
strazia / e punto forte sulla carta”
Impasto verbale di lingua italiana, dunque,
e dialetto siciliano, a tratti duro, per scardinare il conformismo dell'Italia
degli anni Settanta e la mancanza di senso. Insana dice che la parola è voce
della carne e la poesia è medicina carnale, così dai dettagli di un particolare
stonato, “picciùsu”, cerca di far
sprigionare un senso che vada al di là della superficie, una grande occasione
di vedere il male e di non arrenderci a esso. Per questo Raboni, ha potuto
parlare della «concretezza visionaria» di una voce che, prendendo le distanze
dalla massa, riesce a cogliere le storture dell’esistenza e denunciarle. Da
questo punto di vista il plurilinguismo di Jolanda Insana e i testi delle sue
raccolte poetiche, caratterizzati da un vero e proprio “bombardamento” lessicale con termini letterari, insieme a voci
dialettali e neologismi, hanno una cifra inconfondibile che si riconosce non
solo nella concretezza ma anche nella continuità con la tradizione, che la
spinge in direzione della nostra povera, martoriata, meravigliosa lingua
italiana. La ricerca poetica di Jolanda Insana è “lazzariata” dall’esperienza nella sua infanzia della
seconda guerra mondiale, dai bombardamenti delle forze alleate e dalla miseria.
Del resto caratteristica dell’autrice è
la capacità di far risorgere; in questa forza risiede la specificità della
letteratura, per noi, esperienze lontane e concluse, così nel componimento Il bombardamento: «non c’è cautela che basti contro la paura/ a tre anni quando si apre la
prima voragine/ e sotto i bombardamenti si perde terra e acqua/ temo però che
quello non fu l’ultimo avviso/ mandato dal padrone// nessuno conoscerà che male
fu/ avere offeso l’udito.» Poesia sperimentale, dunque, impegnata nei
contenuti e non, di quelle che nelle strutture espressive e nella “lingua ‘strana’, eppure così familiare ai
siciliani, sa incidere sulla realtà concreta, attraverso un instancabile labor limae nel quale lo studio dei
classici latini e greci ha svolto un ruolo di primaria importanza. Ecco la
novità: il suo linguaggio poetico deve molto al pensiero greco, ellenistico e
al romanesimo, al costante e vario vaglio filologico su testi di Euripide,
Alceo, Anacreonte, Ipponatte, Callimaco, Plauto, Lucrezio, Marziale fino ad
Andrea Cappellano. Così la sua ricerca, lungi dal costituire il momento
culminante di un’unica vittoriosa tradizione, rappresenta l’aperto crocevia da
cui non possono non transitare i filoni più avanzati della ricerca poetica del
nostro secolo. Cosa ci dice tutto questo? Che è cambiato radicalmente il nostro
modo di dare significato alla vita rispetto al passato, non c’è un senso già
dato e comune per tutti, il significato della vita va invece costruito, da
ciascuno in modo diverso. Per lei era importante la parola a tratti aggressiva
sulla soglia dell’ambiguità scorticata da un continuo allarme e frana del senso.
“Sono fortunato/ se riesco a muovere la
mandibola in avanti”, si confessa la Voce mentre prova se stessa in ogni
ampiezza e falsetto, incrociando la crescente fragilità con la malattia da cui
è avvolta ogni altra apparenza fuori da sé, natura o nazione o mondo. A
cominciare dai “vecchi padri/ incarogniti
e ubriachi di viagra”, o dalle “fragole giganti/ alberi metà pino e metà
abete nati dopo Cernobyl”. È chiaro che simili sperimentazioni come musiche
strimpellate o termini danteschi, cuticagna o incantamento, o ancora colpanza,
fallenza, oblianza, perdenzia, assieme alla creazione di verbi parasintetici a
prefisso in-, in-, ancora una volta di ispirazione dantesca (impoesiarsi, inserpentarsi),
disorientano il lettore perché rendono problematico qualsiasi tentativo di
traduzione, ma il linguaggio di Jolanda Insana contaminato da un dialetto a
tratti duro dirompe e richiama l’espressionismo dantesco tra antinomie, giochi di parole, balbettii e
borbottii, onomatopee, deformazioni verbali che dolorosamente e
provocatoriamente ruggiscono come fendenti fonici dentro le viscere della
lingua che sconvolge e non si piega. Eppure i ricordi sono compresi solo
attraverso simili “resurrezioni”, emozioni materiche che ne La tagliola dell’amore sostituiscono la
spietatezza dello sguardo a una certa elegiaca apertura che indugia nella
tensione quasi biologica del sentimento.
“Oggi posso fare qualcosa io che sono vinta/ e non voglio rivincite e sacrifici”.
Visionaria della ribellione e dello sdegno,
voce selvaggia in grado di interpretare la lotta umana e di ammonire chi
opprime e soffoca ogni moto di carità e solidarietà, Jolanda fu eretica e
mistica, voce coerente nella dicotomia tra corpo e spirito “non lo amo ma non è una ragione per distruggerlo/ questo mio
corpo incoerente mai sazio né beato/ e dunque lo allevo e lo tutelo come madre/
e lo rattoppo e strappo alle grinfie della figlia”.
Un
“impasto personalissimo di sostenutezza
aulica e gesticolante allegria dialettale” in cui la Sicilia affiora
costantemente come il biancomangiare e
nessuno come Jolanda Insana ha saputo dare voce alla saggezza amara della
Sicilia attraverso l’evocazione della madre ne La tagliola del disamore (2005).
Nata nel 1937, originaria di Monforte,
laureata in Lettere classiche a Messina con una tesi sull’opera in frammenti di
Erinna (una poetessa greca amica di Saffo), trasferitasi nel 1968 a Roma,
l’Insana è stata, oltre che studiosa, anche insegnante che odiava adulazione e
servilismo con una profondità fortemente sapienziale, priva di mediazioni, che
non sarebbe dispiaciuta a Rimbaud o a Campana. Certo, gli apprezzamenti non le
sono mancati, infatti nel 2002 per La
Stortura le è stato anche assegnato il premio Viareggio. Cospicua dunque la
produzione di Jolanda Insana, dagli esordi di Sciarra amara (1977) e Fendenti
fonici (1982) si arriva a La stortura
(2002), libro fondamentale per l’espressione poetica femminile, oggi un universo
rispetto al quale la critica fatica, per molti aspetti, a posizionarsi. È un
dato obiettivo, per esempio, che il numero delle poetesse sia di gran lunga
inferiore a quello degli uomini, fatto che si spiega facilmente con la
condizione di esclusione nei confronti della cultura a cui le donne siano state
condannate per secoli. Infatti mai come in quest’opera si è posto l’accento
sull’immensa difficoltà incontrata dalla parola nel pronunciare: «non c’è altra
parola che la semplice parola/ ma s’infinse di non sentire/ e mi lasciò con le
braccia aperte/ credendosi il padrone che s’abbuffa di libertà/ e sputa servi
incatenati/ sono qui e non sono ammutolita e sciacquo il tempo/ per acquistare
tempo/ commisurando le proposte sgradevoli/ all’incanto sottile delle sete» (p.
361); e ancora: «non ho accesso alla parola/ e quando con fatica dico fame/
faccio vento e non posso masticare// è un’ossessione la bocca/ poi che si
mangia i denti e fa sputazza» (p. 418). La terra, e cioè l’umanità, ha bisogno
di individuare valori solidi che diano un fondamento, anche di tipo religioso,
alla vita, agli uomini e al loro bisogno di significato. Ma dal cielo non viene
nessuna parola che soddisfi tale bisogno. L’uomo resta nella solitudine tragica
della sua condizione, caratterizzata, nel contempo, dal bisogno di significati
certi e dall’impossibilità di una risposta a questa esigenza. Questo bisogno di
dire la realtà e questo senso di esilio si avvicinano in una ricerca che non
ammette consolazioni, come ricorda la stessa Jolanda Insana:
«Forse è vero che quanto più si vive la
mancanza di qualcosa tanto più si diventa onnivori, quanto più si sa tanto più
si sa di non sapere, quanto più si sta in esilio si brama di un rimpatrio, e
dunque quanto più si avverte l'inadeguatezza dei linguaggi tanto più ossessiva
si fa la ricerca di tutti i possibili linguaggi per dare voce al pensiero,
all'emozione, alla verità della vita, alla sua parte oscura, alla sua parte
luminosa.»
Messina negli ultimi anni l’aveva conosciuta.
Ma “dominnidìu” su Jolanda non si è scritto ancora troppo per la verità.
Maria
Allo
Poesie tratte
“Jolanda Insana – Tutte le poesie (1977-2006)”
Camoliato madapolàm
1
la vita e la morte allato vano
transeunti per lo stesso porticato
comincia dolcechiaro finisce amaroscuro
2
non toccare la berretta al tignoso
non tutto è fatto per parere
bello
se sputi all’aria
è meglio che tu cammini
con l’ombrello
3
fuggire è vergogna
ma anche salvamento
vita con vita non si mangia
guai al minchione che non ha
potere
potendo il poco basta
carne cotta e cruda
l’assai soverchia
e troppe grazie a santantònio
4
quanto fiato perde
chi andando per la vita
chiama la morte e dice
accuccia-accuccia
5
i piedi reggono esattamente
quanto ioho
lèvati
non mi fare il solletico
6
ma chi comanda qua
mannàggia
non sono padrona
di niente
maco gli occhi per piangere
7
com’è camoliato
il madapolàm della vita
lo sa la falsabrigante
e nulla può naftalina
8
vita bella e affatturata
non avea catene al collo
né debito di coscienza
dopo la sua porcapedata
non sa più spendersi
con chi le pare e piace
9
meschina vita
si difende a mozziconi
chi muore riempie la sua fossa
per quanta vita sali
Fonti
1. Jolanda
Insana, Tutte le poesie 1977-2006,
Garzanti, Milano 2007.
2. Carmen Micalizzi,
“L’italiano regionale della Sicilia” Tesi di Laurea - A.A. 2002-2003
3. Maria
Antonietta Grignani, Il martòrio e altro,
in Dario Tomasello, Nessuno torna alla
sua dimora, Messina, Sicania, 2009, pp. 33-53.
4. Ambra
Zorat, La poesia femminile italiana dagli
anni Settanta a oggi. Percorsi di analisi testuale,
Tesi di dottorato, Université Paris IV
Sorbonne – Università degli Studi di Trieste, 2009.
5. Jolanda
Insana, Turbativa d'incanto, Garzanti
Libri. Collana: Collezione di poesia, Milano 2012
6. Itinerari
siciliani a cura della Biblioteca
Regionale Universitaria di Messina
7. La
letteratura e noi di Romano Luperini ed. Palumbo , Dal Novecento a oggi “La voce delle
donne”