Il valore della cooperazione nell'innovazione della didattica Moderatrice:Prof.ssa Maria Allo
lunedì 30 maggio 2011
Alle fronde dei salici
ALLE FRONDE DEI SALICI
e come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo telegrafo?
alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Parafrasi: E come potevamo noi, poeti, continuare a scrivere poesie durante l'oppressione tedesca, con i morti sparsi sui prati gelati nelle piazze, con il pianto innocente dei fanciulli, con l'urlo disperato delle madri che cercavano i figli uccisi e impiccati al palo del telegrafo?
Per un voto di silenzio le nostre cetre erano appese ai rami dei salici, oscillavano inerti al triste vento della guerra.
Nel settembre 1943 l’Italia risultava divisa in due parti: nella parte meridionale, controllata dagli Alleati, era stata restaurata la monarchia, sotto il re Vittorio Emanuele III. Nella parte centro-settentrionale, occupata dai tedeschi, Mussolini aveva creato la Repubblica sociale italiana. Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’esercito di liberazione condusse una lotta senza esclusione di colpi contro i tedeschi e i fascisti, che rispondevano con rastrellamenti, deportazioni e veri e propri massacri. Di fronte agli orrori, ai mali della guerra, i poeti non potevano scrivere poesie, ma solo agire, così come gli antichi ebrei schiavi a Babilonia che appesero le loro cetre ai rami dei salici. Particolarmente forti, dure, crude sono le immagini di questa lirica: i morti nelle piazze, la madre che vede il figlio crocifisso sul palo del telegrafo. Il testo, costituito da una sola strofa presenta due periodi: il primo è una lunga interrogazione, il secondo una rapida dichiarazione. I temi principali esposti sono due: i mali della guerra che non lascia spazio ad alcuna pietà e la poesia come impegno civile, per rifare l’uomo e con esso la società, abbruttiti dagli orrori del conflitto.
La rappresentazione degli orrori commessi dai nazisti sulla popolazione inerme degli italiani, massacri che suscitavano panico e paura tra i civili e il silenzio dei poeti. Orribili erano i morti abbandonati nelle piazze, il lamento dei fanciulli, il grido straziante della madre che vedeva il proprio figlio appeso sul palo del telegrafo. Scene reali che si verificavano nelle città e nelle campagne italiane. I nazisti occupavano il Paese e i poeti non trovavano le parole per esprimere lo sconforto e il dolore che avevano nel cuore, nell’anima. Tanto dolore paralizza la mano e offusca la mente. I poeti erano ridotti all’impotenza, avevano finito di scrivere versi e avevano appeso i lori fogli puliti al vento della guerra perché la poesia è impotente di fronte ai morti e alla barbarie. Come scrive Maurizio Dardano: «Lievi. Questo aggettivo sottolinea la fragilità della poesia e quasi la sua inconsistenza, la sua apparente impotenza di fronte ai grandi rivolgimenti della storia».
Marisa Carlà scrive: «L’idea che muove tutta la lirica è che, in presenza della violenza e della crudeltà della guerra e della disumanizzazione dell’uomo, la poesia è costretta a tacere […] Nel verso conclusivo la poesia viene simboleggiata dalle cetre appese ai salici oscillanti al vento, per l’angoscia di quei giorni dolorosi della nostra storia. La sospensione della poesia durante gli anni dell’oppressione straniera significa anche la volontà di fare poesia diversa e nuova dopo l’impronta profonda e incancellabile lasciata dalla guerra nella coscienza degli uomini».
È l’impossibilità da parte dei poeti di scrivere poesie quando la patria è occupata dal nemico, quando la popolazione soffre e piange i suoi difensori, quando la madre perde il proprio figlio. Il poeta non aveva l’animo lieto e non riusciva a trovare le parole per esprimere la propria rabbia contro il nemico occupante, così come gli ebrei, durante la prigionia in Babilonia, non riuscivano a cantare i loro salmi ed avevano appeso le loro cetre sulle fronde dei salici. Quasimodo prende spunto proprio dal salmo 137 della Bibbia dove si narra che gli ebrei avevano appeso le loro cetre sui rami dei salici e avevano perso la gioia di cantare perché prigionieri in terra straniera.
I poeti non potevano scrivere poesie finché la patria era in mani nemiche. «Un sentimento di commozione religiosa pervade questi versi, che nascono non a caso da una memoria biblica. Di qui il carattere meditativo e solenne che assume lo stesso orrore, mescolando al presente immagini archetipiche di sacrificio e di martirio ( il ricordo di agnelli sgozzati, le esecuzioni paragonate all’uccisione di Cristo, una madre che ricorda la figura di Maria ai piedi della Croce). Ma il dolore è impotente e la poesia non può offrire, per voto, che il silenzio, nell’immagine delle cetre che oscillano – quasi in balia di se stesse – alle fronde dei salici, un albero che rappresenta il pianto e il dolore». (Guido Baldi, Storie e testi pagina 353). Maurizio Dardarno scrive: «Al grido di sconforto iniziale segue la rievocazione delle atrocità commesse dagli occupanti tedeschi; in una situazione del genere il poeta non può astrarsi dalla realtà, rifugiandosi nella letteratura, ma deve condividere fino in fondo il dramma del suo popolo. Anche l’arte muore, quando muoiono i sentimenti più elementari di pietà e di umanità; di conseguenza la cetra, strumento e simbolo della poesia, rimane appesa agli alberi, inutilizzata, finché non si ristabiliscano, con il contribuito di tutti, le condizioni del vivere civile». ( da I testi, le forme, la storia pagina 839).
Il linguaggio della poesia è contemporaneamente alto e figurato, simbolico e concreto, retorico e limpido. È costruito su molteplici figure retoriche, ma è anche ritmato e cadenzato. I versi, endecasillabi sciolti, danno un andamento veloce alla poesia che inizia con una domanda retorica e una spiegazione finale. Le immagini di dolore si succedono una dopo l’altra con una velocità crescente. La risposta è lenta ed esprime la rassegnazione del poeta sull’impotenza della poesia a risolvere le sorti della guerra. Come scrive Marisa Carlà: «La lirica è composta da due periodi: il primo, in cui le immagini evocano gli orrori della guerra dell’occupazione nazista, è una lunga domanda che si apre con “E come”, che già dà il senso dell’interrogarsi angoscioso del poeta; gli ultimi tre versi costituiscono la seconda parte, esplicativa». (da Epoche e culture pagina 615)
Guido Baldi scrive: «Il discorso si sviluppa in forme più comunicative, insieme drammatiche e composte nel loro misurato rigore, attraverso la chiara scansione degli endecasillabi». ( pagina 353)
Figure di stile si susseguono numerose: «la domanda retorica iniziale, la metafora (con il piede straniero sopra il cuore), l’analogia (al lamento d’agnello dei fanciulli ) la sinestesia (l’urlo nero ), l’enjambement (al lamento / d’agnello) contribuisce a mettere in rilievo l’analogia istituita tra il pianto dei bambini, e il belato degli agnelli, indifesi di fronte allo spettacolo della violenza, i simboli della cetra che rappresenta la poesia, e il salice che simboleggia l’albero del pianto». (Dardano, pagina 840).
Per molti critici Alle fronde dei salici è costruita con figure retoriche proprie dell’ermetismo, secondo altri la poesia è costruita con un linguaggio più prosastico e più nuovo. Secondo Marisa Carlà: «Dell’ermetismo rimane soprattutto il gusto per l’analogia e la sinestesia, che tende a rendere più drammatico il senso di crudeltà e di orrore della guerra, che assume nella lirica un carattere solenne, mescolando insieme immagini bibliche si sacrificio e di martirio». Mentre Riccardo Marchese scrive: «Il testo, molto suggestivo, può essere letto anche come dichiarazione di poetica: la sospensione della poesia durante gli anni dell’oppressione sembra significare la volontà di dare poesia diversa e nuova, ora che tale oppressione ha lasciato un’impronta incancellabile nella coscienza degli uomini. Di tale intenzione sono testimonianza l’uso della prima persona plurale. Con cui il poeta si fa interprete di un sentimento collettivo, la denuncia della barbarie e l’implicito richiamo ai valori primari della vita e dell’umanità e soprattutto l’urgenza comunicativa, che rende trasparente lo stile e cancella quasi ogni traccia dell’analogismo ermetico, che si riduce al lamento / d’agnello e all’urlo nero della madre, in cui peraltro si ravvisa piuttosto una intenzione espressionistica (ancora più evidente nel corpo appeso al palo del telegrafo). ( Da Atlante letterario pagina 551)
Il tono emotivo è intenso e vibrante. l'autore manifesta tutta la sua l'impotenza come uomo e come poeta; ne esce una poesia sofferta e rabbiosa, che esprime la volontà di urlare il proprio dolore contro il dominio straniero, ma esprime anche il senso di liberazione che il poeta, insieme al popolo italiano, stava vivendo in quei mesi, mentre lotta con i fucili in pugno. La lirica esprime in modo chiaro che la poesia è tornata, e ora può dire tutto il silenzio che è stato necessario subire nei due lunghi anni di guerra fratricida, come ha spiegato lo stesso autore:
«La poesia è stata scritta alla fine dell’inverno del 1944 nel periodo più credule della nostra storia. Nasce da un richiamo a un salmo della Bibbia, precisamente il 137°, che parla del popolo ebreo trascinato in schiavitù a Babilonia. È un riferimento culturale. Il poeta non canta, dico io nel primo verso; e questo lo dicevano gli ebrei perché il canto è la rivelazione più profonda del sentimento dell’uomo. “Al lamento / d’agnello dei fanciulli” , da questo sterminio non è stata risparmiata nemmeno l’infanzia. Basta ricordare l’episodio di Marzabotto dove sono stati fucilati e bruciati 1800 italiani. Fra questi, anche bambini di due anni» (Salvatore Quasimodo).
La lexis di Alle fronde dei salici è chiara e personale. Esprime il nuovo modo si scrivere di Quasimodo dopo la prima opera Acque e terre e dopo il periodo ermetico. Ora il poeta si avvia alla nuova di poesia sociale, civile e corale come scrive nel primo dei saggi sulla poesia nel 1946.
La sua bellezza poggia su di un linguaggio nuovo e chiaro, costruito su tecniche ermetiche ma oramai sganciate dall’ermetismo, ed esprime la volontà del poeta di far parlare la poesia dopo il periodo di silenzio. Come scrive Francesco Puccio: «Il testo è animato da una fortissima tensione etica che trova riscontro nell’impegno di Quasimodo di definire il ruolo del poeta e della poesia. In Alle fronde dei salici, pubblica nel 1945, quando la ferocia e la barbarie nazifascista imperversavano, il poeta esprime la volontà di “rifare l’uomo”. Davanti alla poesia sconvolta dalle distruzioni della guerra il poeta si chiude nella protesta del silenzio, animandola di una forte tensione etica»
venerdì 27 maggio 2011
Originalità e profondità della poesia ungarettiana
"Non so se la poesia possa definirsi. Credo e professo che sia indefinibile, e che essa si manifesti nel momento della nostra espressione, nel quale le cose che ci stanno più a cuore, che ci hanno agitato e tormentato di più nei nostri pensieri, che più a fondo appartengono alla ragione stessa della nostra vita, ci appaiono nella loro più umana verità; ma in una vibrazione che sembra quasi oltrepassare la forza dell'uomo, e non possa mai essere né conquista di tradizioni né di studio, sebbene dell'una e dell'altro sia sostanzialmente chiamata a nutrirsi". VD. ANALISI SAN MATTINO DEL CARSO VEGLIA
VANITA’
D’improvviso è alto sulle macerie il limpido stupore dell’immensità E l’uomo curvato sull’acqua sorpresa dal sole si rinviene un’ombra Cullata e piano franta Vallone il 19 agosto 1917 In Vanità l'identità umana si oggettiva in fragilità fluttuante, in tracce opache deposte su una liquida superficie, in cui la sagoma umana appare ombra inconsistente. Perché l'emblema di precarietà assuma spessore e riviva la speranza del domani è importante cogliere questo particolare all'interno del limpido stupore dell'immensità, cioè nell'ambito della vita della natura, che - con la sua perennità - assicura dignità anche alla vita umana. |
martedì 24 maggio 2011
La "poesia pura"
vd. Ermetismo |
Con gli anni venti nasce in Italia una nuova poesia , il cui tratto distintivo è la sua dimensione lirica.E' la poesia di Ungaretti,Montale, Saba,Saba, Quasimodo e dell'Ermetismo, che si caratterizza come:
- ricerca del significato più profondo del mistero dell'esistenza,al di là delle parvenze quotidiane, della storia,delle ideologie,attraverso un vertiginoso scavo interiore dentro la propria esperienza autobiografica;
- fondazione di una nuova poesia, che si libera da ogni intenzione oratoria , didascalica, discorsiva tipica della precedente poesia italiana e si ricollega alla poetica del simbolismo francese, recuperando e superando tendenze già presenti nel frammentismo della" Voce ", in Campana , nella stessa vocazione lirica della prosa d'arte della Ronda .
si affidano alla poesia come all'illusione suprema , capace di riscattare l'uomo dal "male di vivere".
La poesia diventa così mezzo di conoscenza , illuminazione che coglie il senso delle cose.
Ma per poter compiere questa operazione, essa deve liberarasi dalla razionalità usuale delle forme discorsive i cui nessi logico-sintattici descrivono una realtà senza senso) e recuperare la "purezza della parola" , attarverso una vera e propria rivoluzione formale, i cui caratteri sono:
l'essenzialità della parola, che dà alla singola parola il valore di un'immagine e ne recupera il significato originario che l'uso corrente ha ormai logorato;
la tecnica dell'analogia , che sconvolge i nessi logico-sintattici del linguaggio comune e accosta le cose più lontane tra loro attraverso la potenza evocativa della parola, cogliendo in questo modo il mistero che si cela dietro le parvenze del reale.
Con il suo senso della solitudine, la sua mancanza di salde certezze e la concezione della vita come dolore, Eugenio Montale è l’interprete forse più suggestivo e originale della condizione di crisi dell’uomo contemporaneo. Nessun poeta italiano del Novecento quanto Montale rappresenta il simbolo di un secolo di inquietudine sociale e di angoscia esistenziale per la caduta di punti fermi ideologici e morali.
la tecnica dell'analogia , che sconvolge i nessi logico-sintattici del linguaggio comune e accosta le cose più lontane tra loro attraverso la potenza evocativa della parola, cogliendo in questo modo il mistero che si cela dietro le parvenze del reale.
Con il suo senso della solitudine, la sua mancanza di salde certezze e la concezione della vita come dolore, Eugenio Montale è l’interprete forse più suggestivo e originale della condizione di crisi dell’uomo contemporaneo. Nessun poeta italiano del Novecento quanto Montale rappresenta il simbolo di un secolo di inquietudine sociale e di angoscia esistenziale per la caduta di punti fermi ideologici e morali.
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
Con questa poesia-manifesto Eugenio Montale inaugura la raccolta “Ossi di seppia” pubblicata nel 1925 e destinata a rivoluzionare la poesia italiana. Il componimento ci colpisce sia da un punto di vista formale, sia per l’intensità della dichiarazione d’intenti: il “Non chiederci la parola” coincide, infatti, col rifiuto da parte del poeta di presentarsi come vate, alla maniera classica e poi dannunziana; il tutto è sostenuto da una versificazione innovativa, che ad elementi tradizionali unisce la “trasgressione” di versi niente affatto regolari. Ma è soprattutto la programmaticità del testo a colpirci, e sotto sotto a coinvolgerci: quel “Codesto solo oggi possiamo dirti,ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” suona all’orecchio del contemporaneo come slogan dal sapore di rivoluzione intriso di una disperata, ma battagliera, rassegnazione in cui i giovani non possono che identificarsi. vd.Montale
martedì 17 maggio 2011
I canti di Castelvecchio
(vd.testo - analisi ) IL GELSOMINO NOTTURNO
L'assiuolo, inserito nella quarta edizione di Myricae, è stato pubblicato per la prima volta il 3 gennaio 1897 sul "Marzocco", ma alcune sue tracce risalgono al 1894, testimoniamza di una lunghissima e significativa elaborazione.
Sul piano del contenuto , l'analisi diviene più flessibile e, se si vuole, soggettiva.Come sapete , la poesia è un testo polisemico e, di fronte all'assiuolo, uno dei capolavori della poesia italiana, le interpretazioni proposte dai critici sono state varie e contraddittorie.Il tema, in apparenza ,è il ricordo di una notte illuminata da una luna invisibile , nell'alba di perla . Un temporale lontano minaccioso. Rumori precisi e improvvisi.La voce luttuosa dell'assiuolo, insistente.Rapidi passaggi dagli sfondi indeterminati, ai primi piani delle cose, il mandorlo, il melo ecc.Si tratta allora di una poesia descrittiva? Niente di più sbagliato. L'assiuolo è un esempio magistrale di poesia simbolista, dove la natura sembra caricarsi di significati a volte enigmatici o comunque decifrabili attraverso un paziente lavoro di analisi testuale.
venerdì 13 maggio 2011
Temporale
Myricæ
(1891): è una raccolta di liriche di argomento semplice e modesto,
come dice lo stesso Pascoli, ispiratosi per lo più a temi familiari e campestri. Il titolo è dato dal nome latino delle tamerici ("non omnes arbusta iuvant humilesque Myricæ": non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici), umili pianticelle che sono prese a simbolo di una poesia senza pretese, legata alle piccole cose quotidiane e agli affetti più intimi.
Il
titolo è allusivo ad una poesia dimessa, diversa da quella del Carducci
e
anche da quella ardua e aristocratica di D’Annunzio. La prima edizione è del 1891. Insieme con i Canti di Castelvecchio sono opere che la critica ha definito "del Pascoli migliore", poeta dell’impressionismo e del frammento: "Son frulli di uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane&", scrisse il poeta nella Prefazione del 1894.
E'
dunque una poesia fatta di piccole cose, inerenti per lo più
Un bubbolio
lontano...alla vita della campagna, di quadretti rapidissimi, conclusi nel giro di pochi versi "impressionistici", dove le "cose" sono definite con esattezza, col loro nome proprio (per esempio prunalbo per biancospino). Vi compaiono anche poesie (Novembre, Arano) in cui le "cose" si caricano di una responsabilità simbolica e già si affaccia il tema dei morti (X Agosto), sottolineando una visione della vita che tende a corrodere i confini del reale –avvertito come paura e mistero- per una evasione nella fiaba e nel simbolo (Carrettiere, Orfano, L'assiuolo).
Rosseggia
l'orizzonte,
come affocato, a
mare;
nero di pece, a
monte,
stracci di nubi
chiare:
tra il nero un
casolare:
un'ala di gabbiano.
Lirica
di tipo impressionistico entrata nei canti fin dalla
prima
edizione(1903), che riprende un tema già trattato più volte in Myricae calandolo in una struttura costruita quasi esclusivamente su dati acustici.
Lo schema metrico
La poesia è
costituita da un'unica strofa di settenari rimati,
a coppia,secondo lo schema abe,abc,def,def cioè dalla rima,
dalla perfetta uguaglianza dei suoni finali (orizzonte
/ monte).
I temi: Il male e il nido
se è passato o se sta arrivando. Esso allude vagamente all'idea dolorosa della vita che accompagna la concezione di Pascoli.La maturità gli ha rivelato il suo volto più crudele con la serie di lutti familiari che devastarono la serenità dell'infanzia. E' questo uno dei motivi poetici più ricorrenti della sua produzione. Si contrappone a esso il nido familiare , disperso e continuamente vagheggiato. In questa poesia come in molte altre,assume la forma di una casa , il" casolare" del v.6, che non casualmente spunta dal" nero" che avvolge i monti.
Ampi scenari naturali
(il mare al tramonto, il monte, il cielo e le sue nubi)
e piccoli oggetti (un casolare, un'ala di gabbiano) sono evocati di colpo e improvvisamente accostati gli uni agli altri.
Dopo una prima
sensazione uditiva, evocata dalla voce imitativa
"bubbolio", che annuncia la minaccia di un temporale in arrivo, il poeta fa ricorso ad alcune sensazioni visive, ampie pennellate di colore che fanno pensare ad un quadro impressionista e valgono a creare un’atmosfera di grande intensità emotiva.
È subito
chiaro che il poeta non si limita a descrivere uno spettacolo
naturale. Tanti indizi ci dicono che egli sta piuttosto esprimendo uno stato d'animo tormentato, di cui la tempesta e i suoi colori sono un simbolo. Ce lo dicono le parole che ha scelto (pensate al senso di fastidio, di sfacelo, di minaccia espresso dal rosso "affocato", dal nero "di pece", dagli "stracci" di nubi); ce lo dice la sintassi spezzata (brevi frasi senza verbo, poste una dopo l'altra come rapide pennellate che non lasciano spazio ai dettagli di una descrizione della natura e sembrano esprimere direttamente uno stato d'animo sbigottito, attonito); ce lo dice il ritmo dei versi (pensate in particolare ai versi finali che hanno una più forte concitazione, quasi un cambiamento del respiro per lo sgomento, di fronte al comparire, per la prima volta nel componimento, di un elemento umano: la piccola casa che si distingue contro il nero minaccioso della tempesta) I suoni della natura Allitterazioni vv 2-6 Rosseggia-orizzonte-mare nero-stracci-chiare-nero-casolare Un bubbolìo |
Iscriviti a:
Post (Atom)